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Sàssari: la littaratura in gadduresu pa li steddi

Gadduresu

Sàssari: la littaratura in gadduresu pa li steddi

É priidutu in Sàssari pa ghjoi, la dì 17 di Natali a li cincu di sirintina, l’eventu La littaratura in gadduresu pa li steddi, un mumentu a faori di lu bilinguismu palfettu olganizzatu da l’assòziu di li studenti indipendentisti Su Majolu.

Illa sirata, si faeddarà di l’opari di tre fèmini saldi cu l’autóri mattessi chi arani a intilvinè illu dibàttitu. Alessandra Corda, di Santu Diadòru, cu “Lu Principeddhu” (Le Petit Prince), traduzioni in gadduresu di lu mintuatu libbru di Antoni Di Saint Exupéry; Francesca Ruju, di Telti, invèci ha scrittu pà li steddi un contu invintatu, “La muschita malignona”, una fola pa ca’ Liliana Pinducciu, pur’idda teltesa, ha filmatu li dissigni chi accumpagnani lu scrittu tradottu ‘poi in italianu da Salvatorica Inzaina.

Illu rasgionu chi sigarà tra autóri e pùbblicu s’arà a cuntrastà innantu a li muttii chi ani pultatu li primmi a sciuarà pa li trabaddi soi la linga gadduresa, una linga pa pinsà e scrii chisti libbri e finza campà la ‘ita d’ugna dì. Un momentu pa discuttì cun pruvvettu innant’ a comu si possia trasmittì la cultura di lu locu nostru mattessi scriendi e faeddendi la linga mamma.

Impostu, dunca, ghjoi in Àula Cervantes, Dipaltimentu di Sciènzi Umanìstichi e Sòziali, Via Roma 151 a Sàssari. Continua la lettura di Sàssari: la littaratura in gadduresu pa li steddi

Sardegna: scontri a Teulada contro le esercitazioni della NATO (di Marco Piccinelli)

Foto: Sardinia Post
Foto: Sardinia Post

La Sardegna scende di nuovo in piazza contro le esercitazioni militari, contro i poligoni e contro le manovre di guerra della NATO: indipendentisti, comunisti, anarchici e pacifisti si sono dati appuntamento per oggi 3 novembre (Teulada) e per lo scorso 31 ottobre (Cagliari) per due cortei volti a ribadire la propria posizione contraria alle esercitazioni dell’operazione Trident Juncture sul territorio Sardo. Continua la lettura di Sardegna: scontri a Teulada contro le esercitazioni della NATO (di Marco Piccinelli)

Sassari. Trident Juncture: muimenti contr’a la NATO

manifesto_3 novembre teulada_contro la trident juncture

Sighini in tutta la Saldigna dispùtti e muimenti contr’a l’occupazioni militari e l’enolmi addistramentu NATO, la Trident Juncture chi, sigundu cantu ammunistatu da l’Aeronautica Militari a làmpata, si saria douta abulì pa la palti chi rigaldàa la Saldigna. La Trident Juncture è lu più mannu e dannosu addistramentu NATO da l’abbacata di lu Muru di Berlino a ogghj (33 Stati posti in palti, guasi 40.000 omini impignati e cintinaia di mezi pa ària, mari e tarra). Un prugramma di gherra intratu ogghjmmai illu ‘iu cu la palti a focu da lu 21 di santigaini à la dì di Li Santi chi vidi sempri più malumori ill’ìsulaDumani, malcuri 28 di santigaini, impostu a Sassari da li sei di sirintina a lu centru sòziali di lu cumunu S’idealibera (via Casaggia 12) pa la prisintazioni, irrasgiunata e olganizzazioni di la manifestazioni antimilitarista prummossa da No Basi Né Qui Né Altrove pa la dì tre di Li Santi intundu a lu Poligono di Capo Teulada.

Illi dì chi aspettani Capo Teulada, è priiduta in Casteddu un’alta manifestazioni, chjamata da Tavola Sarda per la Pace pa sàbbatu la dì 31 di santigaini, da li 10:00 di matinata. Paltenzia di lu culdolu da via Sonnino veldi via Roma. Continua la lettura di Sassari. Trident Juncture: muimenti contr’a la NATO

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. III parte (di Andrìa Pili)

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L’ex capo di stato maggiore della Difesa sino a febbraio 2015, Luigi Binelli Mantelli (foto), circa le servitù militari in Sardegna e la crescente insofferenza dei sardi giudicò la definizione “servitù” come “un’espressione corretta, ma oggi non più adeguata alle esigenze della comunicazione”

Andrìa Pili per http://contropiano.org/

La Sardegna è sola

Le recenti dichiarazioni del Generale Errico in commissione difesa, sommate a quelle del Ministro Pinotti, rivelano tanto l’indisponibilità delle autorità politiche e militari italiane a risolvere la questione, quanto l’incapacità dei sardi nelle istituzioni di difendere gli interessi del popolo sardo di fronte al governo, di far emergere chiaramente a Roma l’esistenza di uno scontro. Tanto l’Esercito quanto il governo ritengono i poligoni sardi indispensabili perché si possa adempiere alle esigenze di difesa nazionale, cioè permettere un addestramento soddisfacente per le truppe impegnate nelle missioni all’estero.

Credo sarebbe necessario fare due belle domande ad ogni parlamentare sardo della suddetta commissione: “Lei crede che esistano delle esigenze di Difesa nazionale?”; “Lei pensa che l’Esercito italiano necessiti di spazi adeguati per il proprio addestramento nelle missioni all’estero?”. Successivamente mostrerei le loro contraddizioni. Infatti, non credo che riuscirebbero a dare delle risposte coerenti nel senso di una battaglia contro l’occupazione militare. È per questo che il livello istituzionale, di fatto, attualmente non esiste e che i partiti di sistema (e credo pure i populisti di destra grillini) non possono risolvere il problema. Al di là della propria sensibilità personale o impegno sul tema ci sono dei limiti intrinseci oggettivi da evidenziare: innanzitutto, l’Italia è il centro dell’azione politica dei partiti entro cui i parlamentari sardi sono inseriti, così come dipendono dal centro italiano gli stessi Giunta e Consiglio regionale. A parte ciò, non è certo un dettaglio che l’esecutivo italiano e quello sardo siano entrambi controllati dal Partito Democratico; è evidente come da questo discenda che la filiale regionale non possa mettersi contro il potere centrale così come- data la connivenza- le uniche possibili “soluzioni” al problema del militarismo in Sardegna che l’attuale livello istituzionale può fornire non possano che essere di comodo per il potere politico e insignificante per gli interessi reali dei sardi.

Ma proviamo a notare le conseguenze logiche di quanto affermano le massime autorità politiche e militari italiane: “Il numero dei poligoni è di mera sufficienza. Siamo ad un livello tale per cui non possiamo scendere al di sotto di quello che abbiamo” (Gen.Errico); “Le attività addestrative sono indispensabili a conseguire quelle capacità operative che costituiscono il requisito imprescindibile di uno strumento militare moderno ed efficace, in grado di integrarsi rapidamente e di interoperare efficacemente in contesti multinazionali e il cui mandato di difesa della nazione, dei suoi confini e della collettività, discende direttamente dal dettato costituzionale (…) Per quanto concerne, in particolare, il poligono di capo Teulada, la sua disponibilità risulta essenziale per l’efficienza e la permanenza nell’isola della stessa brigata “Sassari” dell’Esercito italiano” (Pinotti, ministro della Difesa); La chiusura totale dei poligoni mi sembra un’ipotesi improbabile (…) le Forze Armate avranno bisogno di aree addestrative in cui svolgere attività a fuoco”; “mitigazione in senso generale delle servitù militari (…) Inizieremo cioè a vedere poligono per poligono qual è la situazione” (Rossi, sottosegretario al ministero della Difesa).

In sintesi: ragioni supreme di difesa nazionale impediscono la chiusura dei poligoni in Sardegna; quest’ultima implicherebbe l’apertura di poligoni di analoghe dimensioni in altre aree della Repubblica Italiana. Appare evidente come- in assenza di un movimento italiano che possa fare una rivoluzione- nessun partito fondato sull’Italia- con direzione ed interessi fondati sulla penisola- abbia interesse a smilitarizzare la Sardegna per alleviare il fardello dei “poveri sardi” che tanto hanno contribuito, per circa mezzo secolo, alla “sacra causa della Nazione Italiana”. Quale sarebbe, infatti, la convenienza di un partito italianista, centralista, nel porsi in contrasto con le Forze Armate e di assumersi la responsabilità di aprire dei poligoni in una qualsiasi altra regione, tenendo conto sia della gestione di problemi di ordine pubblico quanto delle negative conseguenze elettorali collegate a ciò? Per avere una idea della tattica dei partiti che sono stati più a sinistra nell’arco parlamentare recente, basti ricordarci della Rifondazione Comunista bertinottiana- padre di SEL- che votò il rifinanziamento delle missioni di “pace” per salvare il governo Prodi, cioè le proprie poltrone.

La Sardegna è sola. Può salvarsi solo da sé. Ma questa non è una tragedia, bensì un’opportunità. Il problema dell’occupazione militare è tanto grave che può essere risolto solo attraverso soluzioni radicali, del tutto fuori dall’ordinaria azione del livello istituzionale esistente: l’emersione della questione nazionale nella mobilitazione popolare e uno sbocco politico sardocentrico. È necessario un progetto politico di rottura, alternativo ai partiti che hanno storicamente gestito le relazioni tra l’isola e lo Stato centrale per tenere la prima in condizioni di sudditanza. È proprio la situazione di dipendenza di questa la ragione per cui in essa è stata esternalizzata la gran parte delle servitù militari italiane. È dunque necessario che la questione nazionale sarda diventi centrale nella lotta antimilitarista, oltre l’antimilitarismo tout court finalizzato a se stesso. La questione sarda non è secondaria o marginale ma prioritaria.

Le esigenze di difesa nazionale non riguardano i sardi in nessun caso: innanzitutto, si tratta di esigenze del capitale italiano (tra cui l’ENI, che nell’isola ha portato inquinamento e sottosviluppo e sta facendo affari in Afghanistan) e dell’imperialismo quindi non dei sardi; la Sardegna è una comunità distinta e le esigenze dello Stato italiano e della fittizia nazione monolite cui esso si rifà non sono comunque le proprie. L’Italia può essere un bersaglio per i suoi interventi imperialisti. La Sardegna diventa un bersaglio indiretto, di riflesso, a causa della notevole presenza militare italiana, la quale dunque è tutto fuorché una protezione, come vorrebbe certa propaganda di Destra.

Lo Stato si è fino ad ora mostrato del tutto insensibile alla questione delle nazionalità interne (vedi la recente riforma titolo V) così come è da sempre consapevole di poter risolvere tutto contro gli interessi sardi, mediante la solita mediazione con l’attuale classe politica regionale. Quest’ultima sarebbe ben contenta di mascherare delle modifiche irrisorie come dei propri grandi successi politici. Una volta che questa mediazione verrà manomessa, che nuovi soggetti realmente interessati a cambiare la situazione controlleranno le relazioni con lo Stato centrale sarà possibile cominciare un discorso differente e giungere alla soluzione migliore.

Un progetto politico sardocentrico- il cui obiettivo sia la ridefinizione generale del rapporto tra lo Stato centrale e la Sardegna, entro cui inserire l’indisponibilità a che l’isola si faccia carico dei tre poligoni di Capo Frasca, Teulada e Quirra cioè delle esigenze di Difesa nazionale italiana- si impone come necessario e capace di aggregare quanto più sardi possibile connettendo la questione militare alla generale situazione di dipendenza. Esso può essere l’aggregante per un vero coinvolgimento di massa, cosa che non può nascere da azioni unicamente improntate all’azione diretta, necessariamente condotte da un numero limitato di individui. Il grande successo della mobilitazione del 13 settembre 2014- con 10000 sardi giunti a Capo Frasca contro l’occupazione militare, in nome dei tre punti radicali del comitato promotore- il fallimento della mobilitazione in favore delle servitù militari chiamata dal sindaco di Decimoputzu e dall’estrema destra, possono dimostrare quanto sia possibile creare un grande coinvolgimento di popolo, non strumentalizzabile dai partiti di sistema- che in Sardegna sono i “partiti italiani”- non disposto a finte soluzioni compromissorie, che vede la presenza militare italiana come un’insopportabile atto di sottomissione, funzionale ad interessi esterni. Il problema del militarismo in Sardegna, dunque, può essere la base da cui costruire il suddetto progetto politico. Il problema militare rende la questione nazionale più evidente rispetto ad altri problemi che affliggono l’isola, proprio perché irrisolvibile- anche nell’ipotesi di un “buon compromesso”- entro il rapporto in cui essa è inserita.

Buoni esempi per la Sardegna arrivano da altre due isole: Vieques a Puerto Rico e Okinawa sotto il Giappone. La prima è un esempio di intransigenza e di organizzazione di una lotta popolare- condotta dal basso da indipendentisti e antimilitaristi, in cui il nazionalismo portoricano ha svolto un ruolo importante nella aggregazione- capace di occupare la base della US Navy continuativamente per un anno e un mese e di spingere la classe politica locale ad agire in modo efficace, infine di essere vittoriosa contro gli Stati Uniti al culmine della propria egemonia politica ed economica mondiale. La seconda isola è interessante nel senso della progettualità politica: le ultime due elezioni politiche sono state dominate dal tema dell’occupazione militare e nel 2014 a vincere è stato un candidato indipendente (Takeshi Onaga) sostenuto da movimenti politici non compromessi, tra cui il Partito Comunista Giapponese, in reazione al precedente governatore- membro del Partito Liberaldemocratico di Shinzo Abe- che non aveva saputo mantenere le proprie promesse sull’argomento.

Due esempi di mobilitazione, organizzazione, progettualità politica, cui il movimento sardo contro l’occupazione militare dovrebbe guardare, così come- in futuro- oltre l’isola ci sarà chi guarderà alla lotta sarda. Infatti, non si tratta di mero antimilitarismo e meno che mai di “pacifismo” ma di una lotta contro l’oppressione coloniale e contro l’imperialismo.

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. I parte (di Andrìa Pili)

occupazione Sardegna
Andrìa Pili per http://contropiano.org/

Nel mese d’ottobre la Sardegna sarà coinvolta nella Trident Juncture 2015, l’operazione NATO volta a testare le unità militari atlantiste nella prospettiva di nuovi conflitti. Queste esercitazioni, nell’isola al centro del Mediterraneo occidentale, sono l’ennesimo sopruso inflitto ad un popolo che soffre da circa mezzo secolo la presenza di tre poligoni (tra cui il più grande d’Europa, 13400 ha, Quirra, ed il più grande della Repubblica a Teulada, 7200 ha) oltre che di oltre i 3/5 delle servitù militari italiane. Oltre a questo, sono anche un sonoro schiaffo ad una comunità che da oltre un anno ha assunto una consapevolezza maggiore del problema militarista. Sensibilità e rabbia mai avute in precedenza il cui detonatore fu l’incendio di 32 ettari di macchia entro il poligono di Capo Frasca ed il cui campo propagatore fu la crisi economica, con conseguente progressiva sfiducia verso i partiti tradizionali, aggravante una condizione sociale difficile derivante da una storica oppressione di tipo coloniale.

La Sardegna può essere definita una nazionalità storica, la cui oppressione politica, sociale ed economica è sempre andata di pari passo con la sua riduzione ad oggetto per le esigenze militari della potenza imperiale o imperialistica di turno che ha visto l’isola come un grande avamposto nel Mediterraneo. Solo sotto lo Stato italiano- probabilmente perché tale dominazione è coincisa con l’affermazione passiva della modernizzazione e della società di massa- questo elemento costante nei secoli ha assunto un carattere ideologico molto forte, il quale è divenuto centrale nella mentalità del sardo oppresso, colonizzato. Già alle scuole elementari i sardi apprendono del “tributo di sangue” versato dalla Brigata Sassari durante la Grande Guerra, come da esso discenderebbe un legame indissolubile con l’Italia così come un elemento di unità per gli stessi sardi- che leggenda vuole pocos, locos y mal unidos- grazie al quale si sarebbe creato il Partito Sardo d’Azione, l’autonomismo, rendendo quindi possibile una ridefinizione del rapporto con lo Stato centrale- nella sua fase repubblicana- ove la “specialità regionale” è posta in maniera armonica con l’appartenenza alla “grande nazione italiana”, lontano da pericolose e immorali spinte “separatiste”. Entro questa identità subalterna, il sardo colonizzato non solo è orgoglioso del “suo” reggimento etnico entro l’Esercito Italiano ma ritiene di poter convivere con i siti militari presenti nella sua terra; anzi, crede di non poterne fare a meno e che i poligoni siano l’unica opportunità di sviluppo economico e di occupazione per i territori che li ospitano. Ad esempio, il sottosegretario alla Difesa- Domenico Rossi- ha parlato della forza del grande affetto dei sardi per la Brigata Tatarina in contrapposizione all’antimilitarismo, che sarebbe perciò minoritario

Tale costruzione ideologica si impone per varie rimozioni. Nelle scuole sarde, infatti, la storia della Sardegna non esiste. Lo scolaro sardo è convinto di discendere dagli antichi Romani, ignora la resistenza antiromana nell’isola, e conosce i principali avvenimenti storici basandosi su quanto avvenuto nella penisola italica. Non gli è dato modo di conoscere la civiltà nuragica, l’epoca dei Giudicati, la fallita rivoluzione sarda alla fine del XVIII secolo. Il sardo- fin dalla nascita- è indotto ad un processo d’identificazione con l’Italia e la storia della sua terra è- al massimo- la storia di chi l’ha dominata. È, insomma, un alienato. Perciò, non conosce i duri atti di repressione condotti dall’Esercito Italiano contro il suo popolo, dunque non sente insofferenza quando si celebra la fondazione delle Forze Armate o dell’Arma dei Carabinieri; è del tutto ignorante riguardo le vicende della Divisione Sassari ed i crimini da essa commessi in Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale e quindi guarda alla Brigata come ad un “orgoglio sardo”; ignora gli espropri delle terre condotti dal Ministero della Difesa per la realizzazione dei poligoni, come quanto avveniva prima dell’interdizione delle acque ad essi connessi, non è quindi capace di concepire un utilizzo realmente economico per i terreni che l’Esercito ha sottratto alle comunità dell’isola.

Entro questa realtà, le mobilitazioni contro l’occupazione militare susseguitesi nell’ultimo anno acquisiscono una importanza storica fondamentale, potenzialmente gravida di conseguenze positive per il futuro della Sardegna come la progressiva trasformazione della mentalità del sardo oppresso.

Sassari. «Fuori i fascisti dalla Sardegna» (di Marco Piccinelli)

antifascismo
Marco Piccinelli per http://www.sinistraineuropa.it/ 

«A fora sos fascistas dae sa Sardigna», «Fuori i fascisti dalla Sardegna»: questo il messaggio di Atzione Antifascista Nord-Sardegna che ha indetto una nuova manifestazione per domani alle ore 18:00 presso il Monte d’Accoddi.

Nella giornata di ieri, infatti, l’organizzazione di estrema destra avrebbe dovuto svolgere una «tre giorni in programma nel nord Sardegna: CasaPound, ben nota per aver compiuto una serie di efferate azioni violente contro immigrati, omosessuali e attivisti della sinistra, per seminare una odiosa cultura dell’odio e del razzismo» dichiarano i promotori della mobilitazione, stavolta si presenta ai Sardi come portatrice di istanze controculturali e «dall’interesse per il sociale». La reazione degli antifascisti è stata immediata e il Monte d’Accoddi è stato presidiato contro l’iniziativa i Casapound, se non fosse che – nel mentre – un gruppo di ignoti ha assaltato il centro sociale Pangea di Porto Torres.

«Mentre cento antifascisti presidiavano il sito archeologico – hanno dichiarato i manifestanti – una squadraccia armata di spranghe assaltava il centro sociale Pangea, distruggendo mobili e spaccando vetri. Per fortuna all’interno del Centro sociale era rimasto un presidio a difendere il posto e i fascisti, abituati ad essere sempre in un rapporto di almeno 5:1, si sono presto dileguati». Atzione Antifascista, ha, dunque, rinnovato l’impegno del presidio previsto per l’indomani diramando un comunicato stampa che recita: «Atzione Antifascista Nord-Sardigna lancia la mobilitazione generale antifascista domenica alle ore 10. Presidieremo il sito archeologico tutto il giorno fino a sera per impedire che i fascisti si approprino di un pezzo fondamentale della storia del popolo sardo strumentalizzandolo e piegandolo ai loro fini. Ricordiamo fra l’altro che l’Italia, in epoca fascista, utilizzò l’altare come base militare antiaerea. Ci rivolgiamo ancora una volta a tutti gli antifascisti, agli indipendentisti, ai sinceri democratici, ai comunisti, agli anarchici perché contro il fascismo si crei un solido fronte comune che tolga ogni agibilità a questi squadristi. Il fascismo non è un’idea. È un crimine a cui non bisogna concedere nessuno spazio!».

http://www.sinistraineuropa.it/italia/fuori-i-fascisti-dalla-sardegna/

L’indipendentismo sardo di fronte al Donbass (di Scida)

Donbass resistenza
Pubblichiamo la nostra relazione presentata al convegno del 26 giugno- organizzato a Cagliari in collaborazione con il Fronte Indipendentista Unidu- “Lotta antifascista, diritto all’autodeterminazione, tendenza alla guerra – l’esperienza delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk”.

L’Internazionalismo non si basa sul sentimentalismo romantico o cosmopolita ma è una pratica con la sua ragione di essere nella consapevolezza di appartenere ad un medesimo contesto, come il sistema capitalista mondiale o la sudditanza ad una stessa egemonia politica ed economica, quindi la condivisione dello stesso nemico. Prima di prendere una posizione riguardo il Donbass, dunque, è necessario osservare a grandi linee l’area del conflitto ucraino.

Il conflitto di interessi economici tra Unione Europea e Russia, entrambe vogliose di dominare l’economia della terra di frontiera ucraina- il polo europeo è il principale partner commerciale dell’Ucraina, 25.3% export e 40.7% import, mentre la Russia segue con 24.1% e 19.6%- è esploso alla fine del 2013 durante la presidenza di Yanukovic. Il suo rifiuto di siglare un accordo commerciale con l’UE, in novembre, ha scatenato la protesta di Jevromaidan ad opera di filoeuropeisti, presto egemonizzati da gruppi dell’estrema destra (Svoboda e Pravj Sektor) e strumentalizzati da Washington. Gli Stati Uniti, senza avere particolari interessi economici nel Paese, sono intenzionati a contenere la Russia, potenza concorrente nell’area; a questo fine, da vent’anni, foraggia organizzazioni non governative- come la Open Society di Soros- pronte a scattare a convenienza contro un governo sgradito agli USA o amico della Russia. Così è successo nel 2004, nella cosiddetta Rivoluzione Arancione, sempre contro Yanukovic ed in favore dei filoeuropeisti Yushenko e Tymoshenko e così è accaduto nel 2013. Gli Stati Uniti, vista la debolezza politico militare del progetto europeo- in bilico tra la velleità di costruzione di un proprio grande polo capitalista e l’incapacità di sganciarsi dall’ombrello NATO- hanno chiaramente approfittato del conflitto ucraino, spingendo verso un rafforzamento dei legami commerciali euroatlantici (TTIP o il proprio gas naturale liquido contro la dipendenza dal gas russo) e l’indebolimento dell’economia russa (prigioniera della propria dipendenza dal petrolio e colpita dalle sanzioni). Da Jevromajdan è sorto una specie di golpe contro il governo legittimo volto a portare l’Ucraina entro l’orbita euroatlantica. Il nuovo governo di Yatsenjuk, insediato nel febbraio 2014, diede 4 ministeri agli estremisti di destra di Svoboda, siglò il trattato commerciale con l’UE, propose di eliminare lo status del russo come seconda lingua ufficiale dello Stato. Questi tre fattori provocarono il disappunto dei cittadini dell’Est del Paese, in particolare del Donbass.

In questa regione hanno sede un importante settore metallurgico (acciaio, 40% dell’export di tutta l’Ucraina) e le miniere di carbone, liberi da ingerenze esterne, a differenza degli altri settori economici ucraini. Inoltre, questo carattere operaio- presente fin dall’epoca sovietica- unito all’importanza delle proprie risorse, ha fatto sì che i popoli della provincia di Donetsk e di Lugansk sviluppassero una propria identità, una propria volontà autonomista mostrata chiaramente dagli scioperi dei minatori nel 1993 per ottenere uno statuto autonomo. Per questi elementi, uniti alla forte componente russa e russofona (il russo è maggioritario oltre che più usato che in altre parti del paese), il popolo del Donbass è avverso al nuovo governo ed al blocco euroatlantico verso cui si sta dirigendo, in quanto danneggerebbe la propria economia e la propria cultura. In aprile- con l’occupazione dei palazzi governativi di Donetsk, Lugansk e Kharkiv- lo scontro con Kiev diventa aperto e nel maggio seguente- dopo un referendum per l’indipendenza- nascono le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk e quindi la loro resistenza armata contro l’esercito ucraino, i battaglioni neonazisti e gli interessi della NATO.

Merito di questa resistenza popolare è anche di aver fatto emergere le contraddizioni degli oligarchi ucraini, molto legati a questo territorio. I magnati sfruttatori delle risorse del Donbass- dal 1993 al 2003 sono state privatizzate 9200 aziende statali- sono stati sempre molto influenti nello Stato ucraino, controllando le risorse del paese indipendenti dal capitale straniero (commercio del gas, lavorazione del petrolio, industria metallurgica). Dai governi di Kiev- controllati in maniera diretta o indiretta- hanno sempre ottenuto dei privilegi vista la grande importanza della regione per l’economia ucraina; proprio a tutela di questi, gli oligarchi sono passati compatti dalla parte del governo centrale- sebbene una parte di essi abbia inizialmente sostenuto Yanukovic contro l’Europa- e contro i separatisti. Infatti, hanno bisogno dell’unità statale ucraina a sostegno dei propri profitti: lo Stato ucraino è uno strumento degli oligarchi (il presidente Poroshenko, il 7^ uomo più ricco del Paese è l’ultimo esempio). Il chiaro distacco tra oligarchi e militanti indipendentisti del Donbass si è avuto nel maggio 2014, quando Ahmetov – il più ricco d’Ucraina, controllante diverse fabbriche nella regione- ha chiamato i propri operai a fronteggiare i separatisti. Per tutta risposta, l’allora presidente della Repubblica Popolare di Donetsk- Pushilin- ha minacciato la nazionalizzazione delle industrie in seguito al rifiuto degli oligarchi di pagare le tasse alla RPD, accusandoli inoltre di avere derubato i cittadini per anni. Durante gli ultimi venti anni questi uomini facoltosi seppero costruire il proprio consenso nella regione, garantendo uno standard di vita superiore a quello del resto dell’Ucraina (bassa disoccupazione, alto reddito pro capite, salari in crescita); per questo il distacco tra popolo e oligarchia maturato durante lotta assume una importanza storica, oltre ad essere il segno di una lotta a carattere popolare.

Le elezioni ucraine di Ottobre 2014 hanno sancito un governo a maggioranza filoeuropeista e di Destra egemonizzato dal Blocco Poroshenko e dal Fronte del Popolo di Yatseniuk, con il 21% ciascuno dei suffragi. Il conflitto continua ancora oggi, seppure si sia cercato un accordo tra Kiev le aree ribelli su una larga autonomia per la regione ed il rispetto della lingua russa. L’influenza dei neonazisti è ancora ben presente- basti guardare al fatto che un consulente dello Stato Maggiore ucraino era un militante del Pravj Sektor- mentre il carattere reazionario dello Stato ucraino è divenuto evidente dopo la proibizione del Partito Comunista e dell’equiparazione tra nazismo e comunismo.

In Donbass è quindi in atto un movimento d’autodifesa per difendere identità, cultura, economia, lingua. Insomma, la lotta per l’autodeterminazione del popolo del Donbass è pienamente legittima in quanto antifascista e contro uno Stato oppressore. In più è anche una battaglia contro l’egemonia statunitense ed il polo capitalista europeo. Ciò significa che questa resistenza è una lotta fraterna a quella del movimento di liberazione nazionale sardo. Infatti, la Sardegna si ritrova a pagare- tramite l’occupazione militare, basti pensare al solo Poligono di Quirra, il più grande d’Europa- sulla propria pelle l’Alleanza Atlantica a tutela degli interessi dell’imperialismo occidentale e non può che esprimere la propria avversione verso un progetto europeista edificato su basi non democratiche ed in favore della creazione di un grande spazio entro cui la nostra isola, pure indipendente, sarebbe integrata solo in condizioni di sudditanza e di cui- come organizzazione giovanile e studentesca indipendentista- abbiamo più volte sottolineato i mali in ambito universitario e nelle politiche del lavoro giovanile.

L’indipendentismo sardo deve dirsi attivamente solidale con le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk e guardare- con disincanto e realismo- favorevolmente a chiunque ponga in crisi l’egemonia entro cui la Sardegna è posta come periferia, osservando come- nella storia- il declino di grandi potenze imperiali e imperialiste abbia favorito i movimenti di emancipazione.

http://scida.altervista.org/lindipendentismo-sardo-di-fronte-al-donbass/#sthash.H0xg4iUd.dpuf

Le ragioni della lotta di liberazione nazionale e sociale in Sardegna (di Scida)

Infografica "Stati in gestazione?" - di Limes - tratto da dossier "L'impero è Londra"
Infografica “Stati in gestazione?” – di Limes – tratto da “Scots and the City”

Le ragioni della lotta di liberazione nazionale e sociale in Sardegna

Nazionalismo, autodeterminazione, anticolonialismo. Questi sono tre concetti fondamentali per comprendere le nostre ragioni, per quanto siano stati spesso visti come inappropriati in riferimento alla realtà sarda. Parliamo di nazionalismo rivoluzionario, di liberazione, la cui nascita è situata dagli storici nella Rivoluzione Francese. In questa occasione il concetto di “nazione” fu- per la prima volta- interpretato in senso rivoluzionario: non più come un mero corpo di cittadini nati su un territorio determinato ma anche come un potere costituente- ora oppresso- rivendicante un diritto naturale alla sovranità contro gli oppressori, contro i privilegiati.

La Sardegna è una entità. Siamo un popolo che vive in un determinato territorio ed ha le sue particolari caratteristiche, innanzitutto per quanto concerne la lingua e la storia. Come tale ha diritto all’autodeterminazione: la sovranità nella nostra terra deve passare unicamente attraverso le scelte del nostro popolo, senza i vincoli di un potere ad esso straniero. Ciò non va interpretato come una chiusura nei confronti del resto dell’umanità; tuttavia, solo quando saremo liberi potremo decidere liberamente a quali federazioni aderire- su basi democratiche.

Dopo la rivoluzione francese, il nazionalismo conosce anche la sua declinazione in senso reazionario. Tuttavia, con la Rivoluzione d’Ottobre (1917) si aprirà una nuova fase per le lotte di liberazione nazionale; infatti, la rivoluzione socialista, grazie anche al pensiero di Lenin sull’imperialismo, rappresenterà un faro per tutti i movimenti anticoloniali. Questi assumeranno un ruolo nella lotta contro il capitalismo, ponendosi in netto contrasto con il nazionalismo etnicista, tradizionalista, conservatore e borghese degli Stati oppressori.

Nel XX secolo il pensiero progressista ha analizzato particolarmente il problema dell’imperialismo, del colonialismo vecchio e nuovo, elaborando teorie come quella detta “della Dipendenza” o la teoria dei sistemi-mondo capitalisti. Queste ci hanno mostrato come i rapporti di dominazione tra un centro capitalista e le periferie possa persistere anche una volta che, queste ultime, hanno costruito delle istituzioni proprie formalmente indipendenti (Sudamerica). Inoltre, a differenza di chi ci ha preceduto, possiamo vedere decenni di storia di nuovi Stati nati dalla lotta anticolonialista. Così tutti i movimenti per la liberazione nazionale sono obbligati a chiedersi: si può porre solo il problema della mera costruzione dello Stato? Oppure l’indipendentismo è da intendersi come un processo di emancipazione reale?

In questo modo, al problema della sovranità si aggiunge quello economico. La lotta nazionale è anche lotta per l’emancipazione sociale.

In sintesi: problema istituzionale (sovranità popolare) più problema economico (lotta alla dipendenza). Dalla sudditanza e dallo sfruttamento oggettivo della Sardegna- la sua condizione di terra sfruttata per interessi altrui, in particolare dello Stato italiano- nascono le ragioni di un movimento di liberazione nazionale anche nella nostra isola.

Storia della Sardegna e pensiero sardista dalla Sarda Rivoluzione ad oggi

Il clima preparatore per la Sarda Rivoluzione (1794-96) è sorto nella seconda metà del secolo XVIII, con la crisi del sistema feudale e le riforme sabaude del Ministro Bogino- in particolare la ristrutturazione delle Università. Da queste venne fuori una intera generazione, in particolare di giuristi, aperta a nuove idee, più sensibile alla realtà dell’isola e consapevole del ruolo che la borghesia sarda avrebbe potuto ricoprire se avesse avuto accesso alle più alte cariche pubbliche del Regno nell’isola. L’invasione francese (1793) fu l’evento che scatenò l’emersione di queste energie nuove: i sardi difesero l’isola senza l’aiuto esterno e sotto un vicerè del tutto incapace di far fronte alla situazione. Ciò spinse la borghesia cagliaritana- tramite gli Stamenti- alla formulazione delle sue 5 domande a Torino; l’ostilità nel non volere rispondere ad esse e la crescita di un ambiente politico sempre più vivace attorno agli Stamenti ed al movimento riformatore a Cagliari, culminò nella “emozione popolare” del 28 aprile 1794, quando- dopo il tentativo di arrestare due uomini influenti negli Stamenti, al fine di reprimere quest’ultimo, espressione della rinnovata volontà autonomistica- i cagliaritani- con un grande atto di protagonismo popolare- insorsero contro i piemontesi, espellendoli infine dall’isola.

Sarda Rivoluzione come rivoluzione nazionale mancata (1795-96)

La rivendicazione nazionale borghese (l’accesso alle cariche del Regno di nazionali sardi; difesa delle prerogative autonomiste contro l’assolutismo della Corona) si unisce alla lotta dei contadini contro il feudalesimo. A differenza delle precedenti rivolte a carattere nazionale antelitteram- l’epopea arborense contro gli aragonesi (1354-1409); la rivolta di Leonardo Alagon (1470-1478); la crisi Camarassa (1665-1668) – la Sarda Rivoluzione, in linea con la storia europea, assume una dimensione di massa. L’inno “Su patriotu sardu a sos feudatarios” di Mannu (1795) è una grande testimonianza di questo fatto rivoluzionario che possiamo assumere come atto di nascita della nazione sarda e del nazionalismo sardo.

Nel 1796, con il tradimento della borghesia, avvenne l’aborto della rivoluzione nazionale sarda. La borghesia isolana era troppo debole per potersi mettere, con determinazione, alla testa di un movimento emancipativo; così, la prospettiva di unire le proprie rivendicazioni con il moto nelle campagne finì per intimorirli e per spingerli a rafforzare i legami con la Corona, al fine di salvaguardare ed ampliare i propri privilegi in una dimensione non-conflittuale. Inizia il processo verso la Fusione Perfetta (1848) ed il ruolo definitivamente subalterno della classe dirigente sarda, debole e priva di ambizioni, che vede nel Piemonte prima e nello Stato italiano unitario poi, il massimo protettore dei propri interessi.

Con l’arrivo della corte sabauda in Sardegna, nel 1799, a causa dell’invasione napoleonica e con Carlo Felice viceré si rafforza il legame- il matrimonio di interesse- tra Corona e classe dirigente isolana. Questa sarà funzionale allo Stato italiano come raccordo tra l’oppressore centrale ed il popolo sardo oppresso. La borghesia sarda si è rivelata incapace di avere un ruolo autonomo rispetto a quella italiana. Ne consegue che è impossibile comprendere l’oppressione sociale sarda se non entro l’oppressione nazionale; di conseguenza, è impossibile risolvere la prima senza la seconda.

Ottocento

Si assiste ad un grande interesse per la storia della Sardegna, tanto che possiamo affermare che in questo secolo gli intellettuali hanno inventato la Nazione sarda ma, allo stesso tempo, anche l’italianità della Sardegna. Gli storici sardi – Manno, Spano, Martini, Siotto Pintor- in modo paradossale ma interpretando le ragioni della borghesia sarda, da un lato danno fondamento storico alla Sardegna come nazione e dall’altro la inseriscono entro l’italianità. Fatto del tutto nuovo, dato che si è sempre pensato all’isola come a qualcosa d’altro rispetto al continente.

Nel 1847 avviene la Fusione perfetta tra l’isola ed il Piemonte. A questa segue il prepotente avvento del capitalismo: risoluzione reazionaria del conflitto nelle campagne. L’abolizione del feudalesimo (dal 1832) si realizzò contro gli interessi di contadini e pastori, come testimoniano provvedimenti come l’editto delle chiudende e l’abolizione degli ademprivi. La trasformazione economica renderà il secolo XVIII un periodo di duro scontro di classe tra il popolo e la sua classe dirigente legata allo Stato centrale, subalterna al Capitale italiano.

Sul “fallimento” della Fusione e le sue conseguenze oggettivamente nefaste si interrogano diversi intellettuali sardi, che- con la borghesia- avevano creduto in essa come ad una fonte di progresso e modernità per il popolo sardo, dando vita al pensiero federalista (Tuveri, Asproni).

Piuttosto significativa è la rivolta di “su connotu” nel 1868, a Nuoro. Espressione di una classe subalterna priva di coscienza di sé, senza la formazione di un partito che possa fare i suoi interessi e quindi dotata della sola arma della Tradizione, contro una classe dirigente unita e compatta in favore dell’Italia e del capitale straniero. Questo era penetrato particolarmente nelle miniere tramite società inglesi, francesi, belghe e genovesi.

Nell’ultimo quarto di questo secolo assistiamo all’invasione dei caseari italiani, i quali provocarono l’ampliamento dell’ovino per soddisfare la domanda di pecorino romano per gli emigrati italiani in America. Inoltre, la guerra doganale Italia-Francia, causata dalla nuova politica protezionista del governo italiano della Sinistra Storica- danneggia in particolar modo i produttori sardi; la manifestazione palese degli opposti interessi economici tra l’Italia e la Sardegna porta- specie nel primo Novecento- alle elaborazioni che si riveleranno culturalmente importanti per il futuro sardismo (Attilio Deffenu)

Dal Novecento ai primi anni 2000

Il massiccio impegno bellico dei sardi durante la Grande Guerra (13000 morti e formazione di due reggimenti a base etnica sarda) ebbe degli effetti analoghi a quelli dell’invasione francese del 1793. La coscienza di sé porta alla rivendicazione dei diritti “nazionali” contro il centralismo, per l’autonomia sarda. Dal movimento degli ex combattenti, tra il 1919 ed il 1921, nacque il Partito Sardo d’Azione, primo partito sardocentrico di massa, a base contadina e non per gli interessi degli agrari troppo deboli. Questa è la grande differenza tra la Sardegna ed il Mezzogiorno d’Italia più la Sicilia, evidenziata da Gramsci. La proposta sardista è l’autonomia sarda in una Repubblica federale italiana oltre che la formazione di cooperative tra pastori e contadini.

Dal 1923 al 1926 il PsdAz è emerso come principale formazione antifascista nell’isola. L’ascesa del fascismo stronca il processo sardista.

Dopo l’Autonomia Regionale seguita alla fine del secondo conflitto mondiale ed alla nascita della Repubblica italiana, inizia l’era dei Piani di Rinascita. Questi sono stati, di fatto, l’ennesimo progetto economico in favore dello sfruttamento della Sardegna ad opera del capitalismo italiano. L’aumento del reddito dei sardi non fu accompagnato dall’aumento della capacità produttiva; perciò l’isola divenne un mercato di sbocco per i prodotti del Nord Italia. Mentre fu creato un terreno favorevole all’invasione di capitali stranieri, la Sardegna- come ha rivelato una recente analisi pubblicata sul Sole 24 Ore- è ancora oggi la regione dello Stato italiano ove fare impresa è più difficile.

Ridimensionato il ruolo dell’agricoltura ed in presenza di una debole borghesia manifatturiera, emerge il ruolo della classe politica – dell’apparato politico amministrativo della RAS- come nuova “classe egemone”, vero e proprio protagonista della trasformazione sociale in atto, grazie al suo potere nel dirottamento dei fondi pubblici per lo sviluppo dell’isola. Ciò ha creato il forte legame tra gli agenti economici isolani ed i partiti italiani oltre che la forte dipendenza dallo Stato, ampliata dalla distruzione del tessuto socio-economico sardo con la creazione dei poli industriali e la centralità della petrolchimica. Inoltre, con la crisi petrolifera (1973-79) il capitalismo di Stato italiano (ENI) assunse un ruolo molto rilevante nell’economia sarda.

Le riflessioni sul “fallimento” della Rinascita e le sue conseguenze nefaste, il disincanto nei confronti dell’autonomia regionale, la critica nei confronti della Sinistra italiana (PCI) e dell’azione politica della dirigenza del PsdAz, portò alla nascita del pensiero neosardista e di movimenti politici esplicitamente indipendentisti ed anticolonialisti, ricollegandosi al movimento anticoloniale ed anti-imperialista nel Terzo Mondo: Antonio Simon Mossa (tra sardismo e neosardismo, paragonabile a Connolly e Krutwig, oscillante tra appartenenza al PsdAz e formazione di movimenti in dissidenza come MIRSA); Su Populu Sardu (marxista, indipendentista, propugnante uno Stato socialista sardo).

La crescita di una sensibilità sardista fu catalizzata dal Partito Sardo d’Azione durante le elezioni 1984, che portarono al governo regionale di Mario Melis in coalizione con i comunisti italiani. Tuttavia questo partito si rivelò incapace di gestire il “vento” in suo favore.

Nella prima metà degli anni ’90 si creò un nuovo contesto politico: fine della guerra fredda, crisi degli storici partiti unionisti, crisi del capitalismo di Stato italiano; processo europeista (nascita di nuovi stati indipendenti). Si crea uno spazio per una crescita della coscienza nazionale sarda, perché i messaggi indipendentisti possano concorrere con quelli dei partiti italiani, ormai slegati dalla propria forza ideologica e privi di organizzazione massiva. Crescono nuovi movimenti post-ideologici che raccolgono gli individui più consapevoli, tuttavia non tradottasi nella creazione di un movimento nazionale di massa (SN, iRS, ProgReS). A fianco di questi ultimi anche il movimento indipendentista aMpI, che si distingue per la sua ideologia marxista. Il fallimento del capitalismo di Stato ha portato all’irruzione delle multinazionali, verso cui la Regione Autonoma ha un ruolo del tutto passivo. Inoltre, il tentativo di creare un ambiente favorevole alla nuova economia ICT (Video On Line, Tiscali, Sardegna Ricerche) non ha dato i risultati sperati, non riuscendo a rompere interessi consolidati. Il fallimento del capitalismo di Stato ha portato all’irruzione delle multinazionali, verso cui la Regione Autonoma ha un ruolo del tutto passivo.

Oggi

Il disagio sociale, sebbene non direttamente indipendentista, si esprime attraverso lotte sardocentriche e rivendicazioni contro il centralismo: contro la speculazione energetica e la sottrazione delle terre; contro l’occupazione militare; referendum sulle scorie e sul nucleare; agenzia sarda delle entrate; protezione ed uso pubblico della lingua sarda.

L’ascesa della coscienza nazionale ed il credito acquistato da proposte indipendentiste negli ultimi venti anni, manifestatosi anche elettoralmente come mai accaduto nel passato (Sa Mesa de sos Sardos liberos 1996; iRS provinciali 2010; Sardegna Possibile 2014) ha portato al tentativo, da parte dei partiti unionisti, di bloccare il progetto, cercando di dipingersi come più sardisti. Il cosiddetto “sovranismo”- la collaborazione di una parte del movimento indipendentista con il centrosinistra italiano- è una manifestazione di questo tentativo di riorganizzare l’oppressione nazionale. Ciò potrebbe portare anche all’approvazione di provvedimenti positivi (esempio la legge salvacoste di Soru o, in futuro, la stessa Agenzia Sarda delle Entrate) ma non inquadrate in un progetto emancipativo ma solo al fine di bloccare un processo che potrebbe estendersi fino a minacciare la classe dirigente attuale. Un movimento nazionale di massa serve anche perché delle “conquiste” possano rimanere in piedi ed essere inserite in un progetto emancipativo. Basti pensare allo Stato sociale, concesso grazie alla forza dei Partiti comunisti e del movimento operaio, oggi in smantellamento in assenza di forti partiti a difesa degli interessi popolari).

La persistenza del colonialismo è ben testimoniata dall’esistenza di due nuovi progetti come Matrica (ENI Novamont) a Porto Torres o della centrale a biomasse nel Sulcis, ad opera della Mossi & Ghisolfi. Mentre la Sardegna importa la maggior parte dei cereali che consuma, migliaia di ettari vengono sacrificati in nome di interessi altrui.

Prospettive attuali per la lotta di liberazione nazionale e sociale sarda

Nodo cruciale: trasformazione dell’indipendentismo da movimento di individui a movimento di massa. (Esempio bolivariano).

Necessità di un forte Movimento di Liberazione Nazionale Sardo: blocco storico degli oppressi sardi- i direttamente danneggiati dalla dipendenza economica- contro il blocco unito dagli interessi in comune con lo Stato italiano. La Sinistra unionista- l’idea di una unione ncessaria del popolo sardo con il proletariato italiano- ha storicamente fallito nel suo progetto di emancipazione, ostacolando la formazione di coscienza nazionale e la creazione di un forte partito sardo di massa, risultando funzionale allo Stato, togliendo al popolo sardo la fiducia in se stesso, levandogli di dosso l’idea che la propria liberazione possa dipendere da esso solamente e non da una forza esterna alla sua volontà. La debolezza della Sinistra italiana ed il ruolo reazionario della borghesia sarda sono delle opportunità in più per una prospettiva di lotta popolare coerente in Sardegna (esempio basco e catalano: movimenti sinistra nazionalista crescono sul tracollo della sinistra spagnola, dal collaborazionismo del PCE per la “transizione democratica” in avanti).

La questione culturale è una importante arma contro l’apparato ideologico di Stato, per distruggere la coscienza soggettiva italianista ovvero l’egemonia culturale dello Stato italiano. La promozione dell’uso della lingua sarda in ogni ambito e la costruzione di un sistema educativo sardo sono i due punti più importanti.

Indipendentismo è Internazionalismo: la lotta di liberazione sarda non è in contraddizione con la lotta degli oppressi di tutto il mondo; solo gli oppressori- e i reazionari- hanno interesse a cnteporle. Dobbiamo costruire la Sardegna libera nel XXI secolo: la lotta nella nostra isola è legata con quelle emancipative in tutto il mondo, per l’indipendenza e la giustizia sociale: contro il neoliberismo, per l’ambiente, la giustizia sociale e la democrazia economica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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– Aldo Accardo e Nicola Gabriele, “Scegliere la patria: classi dirigenti e risorgimento in Sardegna”, Donzelli (2011)
– Pietro Maurandi, “L’avventura economica di un cinquantennio” in “L’isola della Rinascita: cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna” a cura di Aldo Accardo, Laterza (1998)
– Francesco Floris, “Feudi e feudatari in Sardegna”, Edizioni della Torre (1996)
– Gianni Fresu, “La prima bardana: modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento”, CUEC (2011)
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http://scida.altervista.org/le-ragioni-della-lotta-di-liberazione-nazionale-e-sociale-in-sardegna/

Sviluppo Umano e municipalità della Sardegna. Uno studio di base (di Alberto Tidu).

copertina-page0001Tesi di laurea per il corso di Scienze Politiche (L-36), Università degli Studi di Cagliari. L’indice di Sviluppo Umano nei comuni della Sardegna. The Human Development Index in Sardinian municipalities.

Alberto Tidu – Sviluppo Umano municipalità sarde