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Teulada. Il FIU: “Obiettivo raggiunto su TJ, ora coordinamento unitario contro l’occupazione militare”

corteo Teulada
Il Fronte Indipendentista Unidu: Obiettivo raggiunto su TJ, ora coordinamento unitario contro l’occupazione militare

Quella di martedì 3 a Teulada/Sant’Anna Arresi è stata una giornata campale per tutto il movimento contro l’occupazione militare della Sardigna. Una giornata che ha dimostrato che i fogli di via sul movimento studentesco di Casteddu e la Rete No Basi Né Qui Né Altrove hanno avuto l’unico effetto di mobilitare ancora più sardi contro la mortifera esercitazione NATO, Trident Juncture, ottenendo un importante risultato politico e organizzativo: l’interruzione – come testimoniato da decine di giornalisti e centinaia di indipendentisti, antimilitaristi e pacifisti – delle esercitazioni NATO dal momento in cui (ore 15:15 circa) una decina di attivisti ha raggiunto le reti riuscendo ad introdursi simbolicamente nella Base. La conseguenza poteva essere solo una: l’interruzione immediata di qualsiasi operazione bellica all’interno del Poligono di Teulada. Le versioni diramate dalla Difesa, dal Comandante del Poligono di Teulada e quello della Brigata Sassari, al contrario, sono patetiche dal momento che centinaia di manifestanti hanno udito benissimo esplosioni sino alle ore 15:00 e, precisamente, come documentato da ProgresTv, almeno fino alle 15:09. Esprimiamo dunque solidarietà incondizionata ai 12 militanti destinatari dei fogli di via del Questore Gagliardi che si sono presentati ugualmente con i bus da Casteddu, fermati e tradotti in caserma a Giba e lì trattenuti tutta la giornata, come altrettanta solidarietà e complicità esprimiamo ai 16 militanti che sono riusciti ad introdursi nel Poligono.

Rimarchiamo come Gagliardi non abbia prodotto alcuna ragionevole motivazione per via amministrativa per vietare la manifestazione di Teulada, se non un inquietante “segnale forte da dare” che non ha fatto altro che alzare la tensione e ledere i più elementari diritti civili. Dare “segnali forti” ad un movimento contro l’occupazione militare in assenza di qualsiasi manifestazione di reato significa reprimere e, nelle migliori delle ipotesi, assumere una vera e propria posizione politica in merito. Non ci risulta che i Questori agiscano in termini politici. Per questo, al pari di quanto richiesto in queste ore da varie organizzazioni politiche, sindacali e studentesche, anche il Fronte Indipendentista Unidu richiede l’immediato allontanamento del Questore Gagliardi.

Non contenta, dopo la comunicazione che diventa richiesta di autorizzazione con illegittimo divieto, la Questura di Cagliari ha gestito la giornata di martedì nel peggior modo possibile: ceck point in stile militare, perquisizioni a tappeto dalle prime ore del mattino e illegittime schedature di massa, oltre a un imponente spiegamento di forze dell’ordine, non inferiore a 600 unità, compreso il Nucleo Artificieri e l’Anti Terrorismo Pronto Impiego. Un clima di intimidazione e gestione ambigua del corteo sfociati nella carica all’imbocco della lingua di terra di Is Pillonis, carica immotivata (l’accesso non era sbarrato e le persone affluivano all’interno da oltre mezz’ora) ed estremamente pericolosa in quanto gli scudi della Polizia e della Guardia di Finanza spingevano verso il fiume e non verso lo slargo che costeggia il mare, più “in sicurezza”.

Come in seguito alla grande manifestazione di Capo Frasca dello scorso anno, il Fronte Indipendentista Unidu ripropone e rilancia da subito la lotta sull’occupazione militare della Sardigna. Una giornata come quella di Teulada è uno spartiacque determinante per accrescere la coscienza nazionale dei sardi sulla loro capacità di opposizione all’occupazione militare e avviare un lavoro condiviso tra organizzazioni politiche e della società civile che non arretri minimamente dagli obiettivi imprescindibili per il futuro della Natzione sarda: fine del servaggio militare EI e NATO, chiusura Poligoni, ripristino e bonifiche dei territori, riconversione economica. Noi la Sardigna di domani la vogliamo incominciare dalla salute e dalla pace. La militarizzazione feroce della Sardigna nell’ultimo mezzo secolo dimostra come lo Stato italiano per la nostra Nazione non voglia né pace né salute, ma solo una Colonia a disposizione. Questo perché l’occupazione militare della Sardegna è tale in quanto inserita sotto la giurisdizione e gli interessi nazionali italiani di primissimo piano. Dopo sessant’anni di NATO e oltre mezzo milione di emigrati non ci sono ragionevoli motivi per pensare che lo Stato italiano abbia altre prospettive per la Sardegna. Solo i sardi, autodeterminandosi, possono essere artefici del loro benessere e del loro sviluppo.

Indipendentzia!

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. III parte (di Andrìa Pili)

binelli-mantelli
L’ex capo di stato maggiore della Difesa sino a febbraio 2015, Luigi Binelli Mantelli (foto), circa le servitù militari in Sardegna e la crescente insofferenza dei sardi giudicò la definizione “servitù” come “un’espressione corretta, ma oggi non più adeguata alle esigenze della comunicazione”

Andrìa Pili per http://contropiano.org/

La Sardegna è sola

Le recenti dichiarazioni del Generale Errico in commissione difesa, sommate a quelle del Ministro Pinotti, rivelano tanto l’indisponibilità delle autorità politiche e militari italiane a risolvere la questione, quanto l’incapacità dei sardi nelle istituzioni di difendere gli interessi del popolo sardo di fronte al governo, di far emergere chiaramente a Roma l’esistenza di uno scontro. Tanto l’Esercito quanto il governo ritengono i poligoni sardi indispensabili perché si possa adempiere alle esigenze di difesa nazionale, cioè permettere un addestramento soddisfacente per le truppe impegnate nelle missioni all’estero.

Credo sarebbe necessario fare due belle domande ad ogni parlamentare sardo della suddetta commissione: “Lei crede che esistano delle esigenze di Difesa nazionale?”; “Lei pensa che l’Esercito italiano necessiti di spazi adeguati per il proprio addestramento nelle missioni all’estero?”. Successivamente mostrerei le loro contraddizioni. Infatti, non credo che riuscirebbero a dare delle risposte coerenti nel senso di una battaglia contro l’occupazione militare. È per questo che il livello istituzionale, di fatto, attualmente non esiste e che i partiti di sistema (e credo pure i populisti di destra grillini) non possono risolvere il problema. Al di là della propria sensibilità personale o impegno sul tema ci sono dei limiti intrinseci oggettivi da evidenziare: innanzitutto, l’Italia è il centro dell’azione politica dei partiti entro cui i parlamentari sardi sono inseriti, così come dipendono dal centro italiano gli stessi Giunta e Consiglio regionale. A parte ciò, non è certo un dettaglio che l’esecutivo italiano e quello sardo siano entrambi controllati dal Partito Democratico; è evidente come da questo discenda che la filiale regionale non possa mettersi contro il potere centrale così come- data la connivenza- le uniche possibili “soluzioni” al problema del militarismo in Sardegna che l’attuale livello istituzionale può fornire non possano che essere di comodo per il potere politico e insignificante per gli interessi reali dei sardi.

Ma proviamo a notare le conseguenze logiche di quanto affermano le massime autorità politiche e militari italiane: “Il numero dei poligoni è di mera sufficienza. Siamo ad un livello tale per cui non possiamo scendere al di sotto di quello che abbiamo” (Gen.Errico); “Le attività addestrative sono indispensabili a conseguire quelle capacità operative che costituiscono il requisito imprescindibile di uno strumento militare moderno ed efficace, in grado di integrarsi rapidamente e di interoperare efficacemente in contesti multinazionali e il cui mandato di difesa della nazione, dei suoi confini e della collettività, discende direttamente dal dettato costituzionale (…) Per quanto concerne, in particolare, il poligono di capo Teulada, la sua disponibilità risulta essenziale per l’efficienza e la permanenza nell’isola della stessa brigata “Sassari” dell’Esercito italiano” (Pinotti, ministro della Difesa); La chiusura totale dei poligoni mi sembra un’ipotesi improbabile (…) le Forze Armate avranno bisogno di aree addestrative in cui svolgere attività a fuoco”; “mitigazione in senso generale delle servitù militari (…) Inizieremo cioè a vedere poligono per poligono qual è la situazione” (Rossi, sottosegretario al ministero della Difesa).

In sintesi: ragioni supreme di difesa nazionale impediscono la chiusura dei poligoni in Sardegna; quest’ultima implicherebbe l’apertura di poligoni di analoghe dimensioni in altre aree della Repubblica Italiana. Appare evidente come- in assenza di un movimento italiano che possa fare una rivoluzione- nessun partito fondato sull’Italia- con direzione ed interessi fondati sulla penisola- abbia interesse a smilitarizzare la Sardegna per alleviare il fardello dei “poveri sardi” che tanto hanno contribuito, per circa mezzo secolo, alla “sacra causa della Nazione Italiana”. Quale sarebbe, infatti, la convenienza di un partito italianista, centralista, nel porsi in contrasto con le Forze Armate e di assumersi la responsabilità di aprire dei poligoni in una qualsiasi altra regione, tenendo conto sia della gestione di problemi di ordine pubblico quanto delle negative conseguenze elettorali collegate a ciò? Per avere una idea della tattica dei partiti che sono stati più a sinistra nell’arco parlamentare recente, basti ricordarci della Rifondazione Comunista bertinottiana- padre di SEL- che votò il rifinanziamento delle missioni di “pace” per salvare il governo Prodi, cioè le proprie poltrone.

La Sardegna è sola. Può salvarsi solo da sé. Ma questa non è una tragedia, bensì un’opportunità. Il problema dell’occupazione militare è tanto grave che può essere risolto solo attraverso soluzioni radicali, del tutto fuori dall’ordinaria azione del livello istituzionale esistente: l’emersione della questione nazionale nella mobilitazione popolare e uno sbocco politico sardocentrico. È necessario un progetto politico di rottura, alternativo ai partiti che hanno storicamente gestito le relazioni tra l’isola e lo Stato centrale per tenere la prima in condizioni di sudditanza. È proprio la situazione di dipendenza di questa la ragione per cui in essa è stata esternalizzata la gran parte delle servitù militari italiane. È dunque necessario che la questione nazionale sarda diventi centrale nella lotta antimilitarista, oltre l’antimilitarismo tout court finalizzato a se stesso. La questione sarda non è secondaria o marginale ma prioritaria.

Le esigenze di difesa nazionale non riguardano i sardi in nessun caso: innanzitutto, si tratta di esigenze del capitale italiano (tra cui l’ENI, che nell’isola ha portato inquinamento e sottosviluppo e sta facendo affari in Afghanistan) e dell’imperialismo quindi non dei sardi; la Sardegna è una comunità distinta e le esigenze dello Stato italiano e della fittizia nazione monolite cui esso si rifà non sono comunque le proprie. L’Italia può essere un bersaglio per i suoi interventi imperialisti. La Sardegna diventa un bersaglio indiretto, di riflesso, a causa della notevole presenza militare italiana, la quale dunque è tutto fuorché una protezione, come vorrebbe certa propaganda di Destra.

Lo Stato si è fino ad ora mostrato del tutto insensibile alla questione delle nazionalità interne (vedi la recente riforma titolo V) così come è da sempre consapevole di poter risolvere tutto contro gli interessi sardi, mediante la solita mediazione con l’attuale classe politica regionale. Quest’ultima sarebbe ben contenta di mascherare delle modifiche irrisorie come dei propri grandi successi politici. Una volta che questa mediazione verrà manomessa, che nuovi soggetti realmente interessati a cambiare la situazione controlleranno le relazioni con lo Stato centrale sarà possibile cominciare un discorso differente e giungere alla soluzione migliore.

Un progetto politico sardocentrico- il cui obiettivo sia la ridefinizione generale del rapporto tra lo Stato centrale e la Sardegna, entro cui inserire l’indisponibilità a che l’isola si faccia carico dei tre poligoni di Capo Frasca, Teulada e Quirra cioè delle esigenze di Difesa nazionale italiana- si impone come necessario e capace di aggregare quanto più sardi possibile connettendo la questione militare alla generale situazione di dipendenza. Esso può essere l’aggregante per un vero coinvolgimento di massa, cosa che non può nascere da azioni unicamente improntate all’azione diretta, necessariamente condotte da un numero limitato di individui. Il grande successo della mobilitazione del 13 settembre 2014- con 10000 sardi giunti a Capo Frasca contro l’occupazione militare, in nome dei tre punti radicali del comitato promotore- il fallimento della mobilitazione in favore delle servitù militari chiamata dal sindaco di Decimoputzu e dall’estrema destra, possono dimostrare quanto sia possibile creare un grande coinvolgimento di popolo, non strumentalizzabile dai partiti di sistema- che in Sardegna sono i “partiti italiani”- non disposto a finte soluzioni compromissorie, che vede la presenza militare italiana come un’insopportabile atto di sottomissione, funzionale ad interessi esterni. Il problema del militarismo in Sardegna, dunque, può essere la base da cui costruire il suddetto progetto politico. Il problema militare rende la questione nazionale più evidente rispetto ad altri problemi che affliggono l’isola, proprio perché irrisolvibile- anche nell’ipotesi di un “buon compromesso”- entro il rapporto in cui essa è inserita.

Buoni esempi per la Sardegna arrivano da altre due isole: Vieques a Puerto Rico e Okinawa sotto il Giappone. La prima è un esempio di intransigenza e di organizzazione di una lotta popolare- condotta dal basso da indipendentisti e antimilitaristi, in cui il nazionalismo portoricano ha svolto un ruolo importante nella aggregazione- capace di occupare la base della US Navy continuativamente per un anno e un mese e di spingere la classe politica locale ad agire in modo efficace, infine di essere vittoriosa contro gli Stati Uniti al culmine della propria egemonia politica ed economica mondiale. La seconda isola è interessante nel senso della progettualità politica: le ultime due elezioni politiche sono state dominate dal tema dell’occupazione militare e nel 2014 a vincere è stato un candidato indipendente (Takeshi Onaga) sostenuto da movimenti politici non compromessi, tra cui il Partito Comunista Giapponese, in reazione al precedente governatore- membro del Partito Liberaldemocratico di Shinzo Abe- che non aveva saputo mantenere le proprie promesse sull’argomento.

Due esempi di mobilitazione, organizzazione, progettualità politica, cui il movimento sardo contro l’occupazione militare dovrebbe guardare, così come- in futuro- oltre l’isola ci sarà chi guarderà alla lotta sarda. Infatti, non si tratta di mero antimilitarismo e meno che mai di “pacifismo” ma di una lotta contro l’oppressione coloniale e contro l’imperialismo.

Sassari. «Fuori i fascisti dalla Sardegna» (di Marco Piccinelli)

antifascismo
Marco Piccinelli per http://www.sinistraineuropa.it/ 

«A fora sos fascistas dae sa Sardigna», «Fuori i fascisti dalla Sardegna»: questo il messaggio di Atzione Antifascista Nord-Sardegna che ha indetto una nuova manifestazione per domani alle ore 18:00 presso il Monte d’Accoddi.

Nella giornata di ieri, infatti, l’organizzazione di estrema destra avrebbe dovuto svolgere una «tre giorni in programma nel nord Sardegna: CasaPound, ben nota per aver compiuto una serie di efferate azioni violente contro immigrati, omosessuali e attivisti della sinistra, per seminare una odiosa cultura dell’odio e del razzismo» dichiarano i promotori della mobilitazione, stavolta si presenta ai Sardi come portatrice di istanze controculturali e «dall’interesse per il sociale». La reazione degli antifascisti è stata immediata e il Monte d’Accoddi è stato presidiato contro l’iniziativa i Casapound, se non fosse che – nel mentre – un gruppo di ignoti ha assaltato il centro sociale Pangea di Porto Torres.

«Mentre cento antifascisti presidiavano il sito archeologico – hanno dichiarato i manifestanti – una squadraccia armata di spranghe assaltava il centro sociale Pangea, distruggendo mobili e spaccando vetri. Per fortuna all’interno del Centro sociale era rimasto un presidio a difendere il posto e i fascisti, abituati ad essere sempre in un rapporto di almeno 5:1, si sono presto dileguati». Atzione Antifascista, ha, dunque, rinnovato l’impegno del presidio previsto per l’indomani diramando un comunicato stampa che recita: «Atzione Antifascista Nord-Sardigna lancia la mobilitazione generale antifascista domenica alle ore 10. Presidieremo il sito archeologico tutto il giorno fino a sera per impedire che i fascisti si approprino di un pezzo fondamentale della storia del popolo sardo strumentalizzandolo e piegandolo ai loro fini. Ricordiamo fra l’altro che l’Italia, in epoca fascista, utilizzò l’altare come base militare antiaerea. Ci rivolgiamo ancora una volta a tutti gli antifascisti, agli indipendentisti, ai sinceri democratici, ai comunisti, agli anarchici perché contro il fascismo si crei un solido fronte comune che tolga ogni agibilità a questi squadristi. Il fascismo non è un’idea. È un crimine a cui non bisogna concedere nessuno spazio!».

http://www.sinistraineuropa.it/italia/fuori-i-fascisti-dalla-sardegna/

Indipendentismo. Dal movimento linguistico alcune buone idee per rivoluzionare l’indipendentismo (di Cristiano Sabino)

csu oschiri
Le giornate dedicate al bilinguismo organizzate dal Comitadu Sardu Ufitziale ci hanno insegnato essenzialmente due cose:

1. Esiste un movimento linguistico abbastanza radicato che pone la questione linguistica come base per un discorso nazionale maturo;

2. Questo movimento si configura come un laboratorio di idee da cui possiamo trarre alcune lezioni, a partire dal superamento del settarismo e della balcanizzazione che rendono l’attuale scenario indipendentista debole e inefficace perché sostanzialmente scoordinato. Continua la lettura di Indipendentismo. Dal movimento linguistico alcune buone idee per rivoluzionare l’indipendentismo (di Cristiano Sabino)

Indipendentismo. Troviamo la nostra sala della pallacorda (di Cristiano Sabino)

Cristiano Sabino
Cristiano Sabino (Foto: Paola Rizzu)

Indipendentismo. Troviamo la nostra sala della pallacorda (di Cristiano Sabino) Continua la lettura di Indipendentismo. Troviamo la nostra sala della pallacorda (di Cristiano Sabino)

Lingua sarda in Rai e voto PD. FIU: umiliazione della Nazione sarda

RAI e lingua sardaL’umiliazione della lingua sarda e i senatori “sardi” rinnegati. 

Il Fronte Indipendentista Unidu denuncia la condotta da rinnegati dei senatori sardi (i PD Silvio Lai e Giuseppe Cucca) che non hanno votato a favore dell’emendamento n. 5.352 nel quadro della riforma della RAI. Continua la lettura di Lingua sarda in Rai e voto PD. FIU: umiliazione della Nazione sarda

Nazione abortiva (di Andria Pili)

orientamento scolastico arruolamentoIl 5 giugno scorso, il comune di Selargius ha dedicato una piazza ad Alessandro Pibiri, caporalmaggiore scelto della Brigata Sassari, in occasione del nono anniversario dalla sua scomparsa in un attentato a Nassiriya. L’evento mi ha toccato come selargino, fornendomi un’occasione per riflettere sui delicati temi della memoria dei caduti e sul rapporto tra la società sarda, i giovani ed il militarismo.

Gara di retorica militarista

Protagoniste della commemorazione le alte cariche militari della Brigata Sassari, il sindaco Gianfranco Cappai ed il cappellano militare Marco Zara. Tre pilastri dell’oppressione- Esercito, classe dirigente, Chiesa- uniti dalla medesima retorica.

Ad inaugurare la gara di eloquenza è Don Marco, il quale- prima di benedire la corona di alloro per il monumento funebre al sassarino- ha voluto evidenziare l’importanza del ricordo “che ci fa crescere e diventare uomini, sull’esempio di chi offre la sua vita per la libertà”.

La gara al più militarista è stata vinta ampiamente dal sindaco, il quale ha parlato di “debito di gratitudine verso i soldati caduti nella missione di pace”; “fiducia verso tutti i giovani in uniforme, animati da sani principi” i quali mettono a repentaglio “la vita per ristabilire condizioni di pacifica convivenza in terre lontane”. La denominazione della piazza sarebbe una “occasione per tributare ai nostri coraggiosi soldati (…) in particolare ai giovani della Brigata Sassari (…) il doveroso riconoscimento (…) per il servizio che rendono alla Patria”. Il sindaco del centrodestra unionista ha ricordato, come un vanto, che il comune ha dedicato alla Brigata Sassari un parco, oltre ad aver consegnato alla stessa una onorificenza. E ciò è stato fatto proprio in nome del “rapporto di reciproca stima che lega Selargius alla Brigata Sassari”. La scelta di dedicare il luogo al caduto nel 2006 è rivolta “ai giovani cui vogliamo proporre un modello, un esempio da seguire” oltre che un posto per “riflettere sui principi morali che hanno animato e animano i nostri soldati, giovani e meno giovani, in missione di pace, di farli propri nella vita di ogni giorno e viverli pienamente”.

Di fronte a questa grandiosa esibizione, il generale Nitti- dopo l’immancabile Preghiera del Soldato, in cui si chiede a Dio un aiuto per obbedire “alla Patria”, sebbene gli 800 euro mensili di un VFP1, i 950 di un VFP4, i 1400 di un VSP, più i 100 euro giornalieri per chi si trova in missione, dovrebbero già essere più che sufficienti allo scopo- non ha potuto che fare da accompagnamento al primo cittadino. Il Comandante della Brigata ha voluto ricordare un “concetto importante: i caduti in combattimento non sono eroi di altri tempi (…) ne abbiamo prova anche oggi dell’eroismo di chi opera nei teatri (…) Alessandro ne è la testimonianza”. Chi sono i caduti? “persone che hanno dato la vita per una causa giusta, per cui la Patria gli ha chiesto di operare”.

In sintesi: giustificazione morale del contributo militare italiano all’occupazione dell’Iraq; esaltazione dei soldati dell’Esercito Italiano; i caduti in missione come esempio da imitare per i ragazzi. Come era ovvio, nessuna riflessione veramente utile per i giovani sardi e mistificazione della realtà.

La cruda realtà, infatti, dice che: i soldati morti in Iraq sotto divisa italiana hanno dato la vita per l’imperialismo, durante un’occupazione militare che non ha migliorato la vita degli iracheni ma solo l’attivo delle multinazionali, come l’ENI, uniche ad avere un debito di gratitudine; la missione non è stata di pace, bensì di guerra – vedi la Battaglia dei Due Ponti ma anche il contesto in cui Pibiri stesso è morto, mentre scortava un convoglio logistico delle forze armate britanniche proveniente dalla provincia di Maysan, ove le truppe della Regina si sono distinte per violazioni dei diritti umani (vedi dossier Hague); i principi dei soldati non sono altro che una copertura ideologica, volta a dare dignità ad un impegno altrimenti inaccettabile sul piano etico e ad una scelta dettata da motivazioni economiche (nel 2007, il 70% delle richieste d’arruolamento proveniva dal Sud e le isole).

Per queste ragioni è necessario ribaltare il ricordo dei caduti: da eroi immolatisi per la giusta causa della “Patria” a vittime, ragazzi che avrebbero potuto dare un contributo alla propria comunità se lo Stato non gli avesse persuasi- specie con la sirena della “indipendenza economica”, sempre evidenziata dalla propaganda per l’arruolamento nel sito delle Forze Armate- a indossare una divisa. I giovani sardi, anziché farne un esempio da imitare, dovrebbero essere mossi da questo ricordo per lottare in nome del cambiamento di una società colonizzata, perché questa smetta di generare morti e dia modo a tutti di completarsi.

Figli della colonia Sardegna.

Il fatto che Alessandro Pibiri sia stato della mia città, abbia risieduto nel mio stesso quartiere, abbia frequentato le mie stesse scuole elementari, senza contare le comuni conoscenze, mi ha reso più evidente come io stesso avrei potuto essere come lui. Allo stesso tempo mi ha reso ben chiara la dimensione della tragedia- sebbene, nella grande maggioranza dei casi, chi indossa la divisa sia un privilegiato- per cui dei sardi sono caduti in missione “di pace”. Figli della Sardegna ma privi delle occasioni, delle esperienze, delle letture che hanno reso immuni dal militarismo italiano altri ragazzi come loro, minoritari almeno al tempo dell’occupazione dell’Iraq.

Figli di una scuola che non è volta ad educare i ragazzi al senso critico ma, al contrario, è veicolo dell’ideologia di Stato per cui i soldati italiani sono degli eroi, l’arruolamento nell’Esercito è un’occupazione come un’altra, anzi migliore, e le missioni di pace sono giuste. Indicativi sono certi temi imposti ai ragazzi delle scuole superiori, a volte per concorsi a premi ufficiali delle Forze Armate e della Difesa, come nel 2008 per l’ITC di Macomer “L’Esercito italiano una risorsa per il paese” o quest’anno per il centenario dell’ingresso italiano nella Grande Guerra. Educati, inoltre- questo è un grande punto distintivo rispetto alle altre regioni sfruttate della Repubblica- nella convinzione che la storia della Sardegna non esista, che la propria storia sia quella dell’Italia, quindi che questa sia la Patria da servire e la Repubblica Italiana l’istituzione cui è dovuta fedeltà. Posso raccontare due esperienze personali, come studente e come attivista politico: durante il mio ultimo anno di Liceo (2008/09) ho incontrato almeno 4 volte dei militari- due volte a scuola, una volta alla Fiera di Cagliari, un’altra volta all’orientamento universitario in Cittadella Universitaria ed oggi li avrei incontrati anche all’iniziativa OrientaSardegna- mentre non ho incontrato esponenti di altre professioni; da attivista dell’indipendentismo giovanile, durante un’assemblea di istituto, un ragazzino mi confidò di aver studiato la storia sarda soltanto come punizione, un compito aggiuntivo per essersi comportato male.

Figli di famiglie cattoliche, la cui Chiesa- dall’etica alterata- mentre non perde occasione per indicare a tutti il retto uso dei genitali e, alle donne, del proprio corpo, non ha mai usato la propria forza “spirituale” per orientare i propri fedeli contro la guerra imperialista. Quest’ultima, al contrario, è stata benedetta di fatto dalla presenza costante di uomini del clero ad ogni evento dell’Esercito Italiano e in maniera diretta dai discorsi dell’alto clero. Basti citare solo il discorso pronunciato dall’arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei, durante una cerimonia al Sacrario Militare, lo scorso novembre: “valore delle missioni di pace (…) l’impegno dei soldati a tutela e protezione dei diritti dell’uomo e di tutti i popoli (…) un valore come il diritto alla pace va coltivato e rispettato, ma anche il valore della difesa della Patria e della comune fede cristiana (…) alla fine – quando ci sarà il giudizio universale– ci verrà chiesto se abbiamo agito in difesa di questi valori comuni o se ci siamo limitati a curare il nostro orticello”.

Figli di una società che ha interiorizzato il militarismo, dal mito del tributo di sangue dei sassarini sul Carso alle conseguenze sociali e culturali dell’occupazione militare, che ha convinto delle comunità di avere bisogno di basi militari anziché di progetti di sviluppo, soffocati dalla presenza delle servitù. Una società sottoposta alla dipendenza economica, incapace di fornire delle opportunità ai propri giovani: la Sardegna è ultima delle regioni dello Stato e tra le ultime regioni d’Europa (265^ su 269) per numero di laureati; seconda in Italia e nona in Europa per tasso di dispersione scolastica (23.5%), quindi pone sul mercato del lavoro un ingente numero di ragazzi destinati a lavori scarsamente qualificati e precari; gli studenti sardi sono intrappolati in circolo vizioso tra un’educazione scolastica e superiore che punta al ribasso e l’incapacità di assorbire coloro che sono altamente qualificati, costringendoli all’emigrazione giacché, nella nostra isola, andrebbero incontro a lavori sotto la propria competenza. In questo contesto, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50% e del tutto privi di una prospettiva di lotta come pure degli strumenti per distinguere il vero dal falso, è normale che i giovani della nostra terra considerino l’arruolamento una cosa giusta da fare.

Il sindaco di Selargius, con il suo discorso, ha dimostrato di essere parte della classe dirigente sarda che, ostinata esecutrice della propria funzione coloniale, continua nella produzione di “aborti” come se non ci fosse una via di uscita. Analogamente, la città che amministra è emblema della Sardegna tutta. Pensiamo alla costruzione di un grande centro commerciale (Bricoman) presentata come grande opportunità di lavoro, contro artigiani e piccoli commercianti, mentre numerosi negozi cittadini hanno chiuso i battenti. Guardiamo le vie che ricordano grandi eventi della Grande Guerra e del Risorgimento, le annuali celebrazioni del 4 novembre e notiamo come la celebrazione della presunta “italianità” sia accompagnata dal disprezzo per la propria storia; infatti, solo una conferenza in aula consiliare- nel 2011- per rievocare i tumulti selargini del 1779, precursori della Sarda Rivoluzione, mentre una croce del XV secolo viene sorpassata giornalmente da ignari automobilisti ed un villaggio neolitico (Su Coddu) viene “decorato” dal cemento e dai mattoni per la costruzione di graziose villette. Infine, osserviamo il cartello all’ingresso della città: CERAXIUS; simbolo di una comunità tanto abituata alla relegazione della propria lingua nel privato e nel solo parlato, da essere incapace di scrivere correttamente il proprio nome.

Spetta ai giovani più coscienziosi operare perché i propri coetanei non ripongano più alcuna speranza nello stato di cose presente. La lotta per la realizzazione di un ordine più giusto in Sardegna, contro la destinazione d’uso coloniale decisa dall’oppressore, ha nella cultura la sua arma principale. L’identificazione del nemico passa per la consapevolezza di sé, in particolare tramite l’uso della propria lingua e la conoscenza della propria storia. In concreto, è necessario combattere per un sistema educativo sardocentrico, l’uso del sardo in ogni ambito, la realizzazione di media pensati in sardo per i sardi. Questi sono gli strumenti per costruire un ambiente in cui i più giovani concepiscano la diversità della propria terra, della propria condizione sociale ed economica, diventino sensibili ai messaggi di autodeterminazione e quindi si uniscano alla costruzione di una Repubblica libera di individui liberi e completi

http://scida.altervista.org/nazione-abortiva/#sthash.1y3SDQu2.dpuf

Le ragioni della lotta di liberazione nazionale e sociale in Sardegna (di Scida)

Infografica "Stati in gestazione?" - di Limes - tratto da dossier "L'impero è Londra"
Infografica “Stati in gestazione?” – di Limes – tratto da “Scots and the City”

Le ragioni della lotta di liberazione nazionale e sociale in Sardegna

Nazionalismo, autodeterminazione, anticolonialismo. Questi sono tre concetti fondamentali per comprendere le nostre ragioni, per quanto siano stati spesso visti come inappropriati in riferimento alla realtà sarda. Parliamo di nazionalismo rivoluzionario, di liberazione, la cui nascita è situata dagli storici nella Rivoluzione Francese. In questa occasione il concetto di “nazione” fu- per la prima volta- interpretato in senso rivoluzionario: non più come un mero corpo di cittadini nati su un territorio determinato ma anche come un potere costituente- ora oppresso- rivendicante un diritto naturale alla sovranità contro gli oppressori, contro i privilegiati.

La Sardegna è una entità. Siamo un popolo che vive in un determinato territorio ed ha le sue particolari caratteristiche, innanzitutto per quanto concerne la lingua e la storia. Come tale ha diritto all’autodeterminazione: la sovranità nella nostra terra deve passare unicamente attraverso le scelte del nostro popolo, senza i vincoli di un potere ad esso straniero. Ciò non va interpretato come una chiusura nei confronti del resto dell’umanità; tuttavia, solo quando saremo liberi potremo decidere liberamente a quali federazioni aderire- su basi democratiche.

Dopo la rivoluzione francese, il nazionalismo conosce anche la sua declinazione in senso reazionario. Tuttavia, con la Rivoluzione d’Ottobre (1917) si aprirà una nuova fase per le lotte di liberazione nazionale; infatti, la rivoluzione socialista, grazie anche al pensiero di Lenin sull’imperialismo, rappresenterà un faro per tutti i movimenti anticoloniali. Questi assumeranno un ruolo nella lotta contro il capitalismo, ponendosi in netto contrasto con il nazionalismo etnicista, tradizionalista, conservatore e borghese degli Stati oppressori.

Nel XX secolo il pensiero progressista ha analizzato particolarmente il problema dell’imperialismo, del colonialismo vecchio e nuovo, elaborando teorie come quella detta “della Dipendenza” o la teoria dei sistemi-mondo capitalisti. Queste ci hanno mostrato come i rapporti di dominazione tra un centro capitalista e le periferie possa persistere anche una volta che, queste ultime, hanno costruito delle istituzioni proprie formalmente indipendenti (Sudamerica). Inoltre, a differenza di chi ci ha preceduto, possiamo vedere decenni di storia di nuovi Stati nati dalla lotta anticolonialista. Così tutti i movimenti per la liberazione nazionale sono obbligati a chiedersi: si può porre solo il problema della mera costruzione dello Stato? Oppure l’indipendentismo è da intendersi come un processo di emancipazione reale?

In questo modo, al problema della sovranità si aggiunge quello economico. La lotta nazionale è anche lotta per l’emancipazione sociale.

In sintesi: problema istituzionale (sovranità popolare) più problema economico (lotta alla dipendenza). Dalla sudditanza e dallo sfruttamento oggettivo della Sardegna- la sua condizione di terra sfruttata per interessi altrui, in particolare dello Stato italiano- nascono le ragioni di un movimento di liberazione nazionale anche nella nostra isola.

Storia della Sardegna e pensiero sardista dalla Sarda Rivoluzione ad oggi

Il clima preparatore per la Sarda Rivoluzione (1794-96) è sorto nella seconda metà del secolo XVIII, con la crisi del sistema feudale e le riforme sabaude del Ministro Bogino- in particolare la ristrutturazione delle Università. Da queste venne fuori una intera generazione, in particolare di giuristi, aperta a nuove idee, più sensibile alla realtà dell’isola e consapevole del ruolo che la borghesia sarda avrebbe potuto ricoprire se avesse avuto accesso alle più alte cariche pubbliche del Regno nell’isola. L’invasione francese (1793) fu l’evento che scatenò l’emersione di queste energie nuove: i sardi difesero l’isola senza l’aiuto esterno e sotto un vicerè del tutto incapace di far fronte alla situazione. Ciò spinse la borghesia cagliaritana- tramite gli Stamenti- alla formulazione delle sue 5 domande a Torino; l’ostilità nel non volere rispondere ad esse e la crescita di un ambiente politico sempre più vivace attorno agli Stamenti ed al movimento riformatore a Cagliari, culminò nella “emozione popolare” del 28 aprile 1794, quando- dopo il tentativo di arrestare due uomini influenti negli Stamenti, al fine di reprimere quest’ultimo, espressione della rinnovata volontà autonomistica- i cagliaritani- con un grande atto di protagonismo popolare- insorsero contro i piemontesi, espellendoli infine dall’isola.

Sarda Rivoluzione come rivoluzione nazionale mancata (1795-96)

La rivendicazione nazionale borghese (l’accesso alle cariche del Regno di nazionali sardi; difesa delle prerogative autonomiste contro l’assolutismo della Corona) si unisce alla lotta dei contadini contro il feudalesimo. A differenza delle precedenti rivolte a carattere nazionale antelitteram- l’epopea arborense contro gli aragonesi (1354-1409); la rivolta di Leonardo Alagon (1470-1478); la crisi Camarassa (1665-1668) – la Sarda Rivoluzione, in linea con la storia europea, assume una dimensione di massa. L’inno “Su patriotu sardu a sos feudatarios” di Mannu (1795) è una grande testimonianza di questo fatto rivoluzionario che possiamo assumere come atto di nascita della nazione sarda e del nazionalismo sardo.

Nel 1796, con il tradimento della borghesia, avvenne l’aborto della rivoluzione nazionale sarda. La borghesia isolana era troppo debole per potersi mettere, con determinazione, alla testa di un movimento emancipativo; così, la prospettiva di unire le proprie rivendicazioni con il moto nelle campagne finì per intimorirli e per spingerli a rafforzare i legami con la Corona, al fine di salvaguardare ed ampliare i propri privilegi in una dimensione non-conflittuale. Inizia il processo verso la Fusione Perfetta (1848) ed il ruolo definitivamente subalterno della classe dirigente sarda, debole e priva di ambizioni, che vede nel Piemonte prima e nello Stato italiano unitario poi, il massimo protettore dei propri interessi.

Con l’arrivo della corte sabauda in Sardegna, nel 1799, a causa dell’invasione napoleonica e con Carlo Felice viceré si rafforza il legame- il matrimonio di interesse- tra Corona e classe dirigente isolana. Questa sarà funzionale allo Stato italiano come raccordo tra l’oppressore centrale ed il popolo sardo oppresso. La borghesia sarda si è rivelata incapace di avere un ruolo autonomo rispetto a quella italiana. Ne consegue che è impossibile comprendere l’oppressione sociale sarda se non entro l’oppressione nazionale; di conseguenza, è impossibile risolvere la prima senza la seconda.

Ottocento

Si assiste ad un grande interesse per la storia della Sardegna, tanto che possiamo affermare che in questo secolo gli intellettuali hanno inventato la Nazione sarda ma, allo stesso tempo, anche l’italianità della Sardegna. Gli storici sardi – Manno, Spano, Martini, Siotto Pintor- in modo paradossale ma interpretando le ragioni della borghesia sarda, da un lato danno fondamento storico alla Sardegna come nazione e dall’altro la inseriscono entro l’italianità. Fatto del tutto nuovo, dato che si è sempre pensato all’isola come a qualcosa d’altro rispetto al continente.

Nel 1847 avviene la Fusione perfetta tra l’isola ed il Piemonte. A questa segue il prepotente avvento del capitalismo: risoluzione reazionaria del conflitto nelle campagne. L’abolizione del feudalesimo (dal 1832) si realizzò contro gli interessi di contadini e pastori, come testimoniano provvedimenti come l’editto delle chiudende e l’abolizione degli ademprivi. La trasformazione economica renderà il secolo XVIII un periodo di duro scontro di classe tra il popolo e la sua classe dirigente legata allo Stato centrale, subalterna al Capitale italiano.

Sul “fallimento” della Fusione e le sue conseguenze oggettivamente nefaste si interrogano diversi intellettuali sardi, che- con la borghesia- avevano creduto in essa come ad una fonte di progresso e modernità per il popolo sardo, dando vita al pensiero federalista (Tuveri, Asproni).

Piuttosto significativa è la rivolta di “su connotu” nel 1868, a Nuoro. Espressione di una classe subalterna priva di coscienza di sé, senza la formazione di un partito che possa fare i suoi interessi e quindi dotata della sola arma della Tradizione, contro una classe dirigente unita e compatta in favore dell’Italia e del capitale straniero. Questo era penetrato particolarmente nelle miniere tramite società inglesi, francesi, belghe e genovesi.

Nell’ultimo quarto di questo secolo assistiamo all’invasione dei caseari italiani, i quali provocarono l’ampliamento dell’ovino per soddisfare la domanda di pecorino romano per gli emigrati italiani in America. Inoltre, la guerra doganale Italia-Francia, causata dalla nuova politica protezionista del governo italiano della Sinistra Storica- danneggia in particolar modo i produttori sardi; la manifestazione palese degli opposti interessi economici tra l’Italia e la Sardegna porta- specie nel primo Novecento- alle elaborazioni che si riveleranno culturalmente importanti per il futuro sardismo (Attilio Deffenu)

Dal Novecento ai primi anni 2000

Il massiccio impegno bellico dei sardi durante la Grande Guerra (13000 morti e formazione di due reggimenti a base etnica sarda) ebbe degli effetti analoghi a quelli dell’invasione francese del 1793. La coscienza di sé porta alla rivendicazione dei diritti “nazionali” contro il centralismo, per l’autonomia sarda. Dal movimento degli ex combattenti, tra il 1919 ed il 1921, nacque il Partito Sardo d’Azione, primo partito sardocentrico di massa, a base contadina e non per gli interessi degli agrari troppo deboli. Questa è la grande differenza tra la Sardegna ed il Mezzogiorno d’Italia più la Sicilia, evidenziata da Gramsci. La proposta sardista è l’autonomia sarda in una Repubblica federale italiana oltre che la formazione di cooperative tra pastori e contadini.

Dal 1923 al 1926 il PsdAz è emerso come principale formazione antifascista nell’isola. L’ascesa del fascismo stronca il processo sardista.

Dopo l’Autonomia Regionale seguita alla fine del secondo conflitto mondiale ed alla nascita della Repubblica italiana, inizia l’era dei Piani di Rinascita. Questi sono stati, di fatto, l’ennesimo progetto economico in favore dello sfruttamento della Sardegna ad opera del capitalismo italiano. L’aumento del reddito dei sardi non fu accompagnato dall’aumento della capacità produttiva; perciò l’isola divenne un mercato di sbocco per i prodotti del Nord Italia. Mentre fu creato un terreno favorevole all’invasione di capitali stranieri, la Sardegna- come ha rivelato una recente analisi pubblicata sul Sole 24 Ore- è ancora oggi la regione dello Stato italiano ove fare impresa è più difficile.

Ridimensionato il ruolo dell’agricoltura ed in presenza di una debole borghesia manifatturiera, emerge il ruolo della classe politica – dell’apparato politico amministrativo della RAS- come nuova “classe egemone”, vero e proprio protagonista della trasformazione sociale in atto, grazie al suo potere nel dirottamento dei fondi pubblici per lo sviluppo dell’isola. Ciò ha creato il forte legame tra gli agenti economici isolani ed i partiti italiani oltre che la forte dipendenza dallo Stato, ampliata dalla distruzione del tessuto socio-economico sardo con la creazione dei poli industriali e la centralità della petrolchimica. Inoltre, con la crisi petrolifera (1973-79) il capitalismo di Stato italiano (ENI) assunse un ruolo molto rilevante nell’economia sarda.

Le riflessioni sul “fallimento” della Rinascita e le sue conseguenze nefaste, il disincanto nei confronti dell’autonomia regionale, la critica nei confronti della Sinistra italiana (PCI) e dell’azione politica della dirigenza del PsdAz, portò alla nascita del pensiero neosardista e di movimenti politici esplicitamente indipendentisti ed anticolonialisti, ricollegandosi al movimento anticoloniale ed anti-imperialista nel Terzo Mondo: Antonio Simon Mossa (tra sardismo e neosardismo, paragonabile a Connolly e Krutwig, oscillante tra appartenenza al PsdAz e formazione di movimenti in dissidenza come MIRSA); Su Populu Sardu (marxista, indipendentista, propugnante uno Stato socialista sardo).

La crescita di una sensibilità sardista fu catalizzata dal Partito Sardo d’Azione durante le elezioni 1984, che portarono al governo regionale di Mario Melis in coalizione con i comunisti italiani. Tuttavia questo partito si rivelò incapace di gestire il “vento” in suo favore.

Nella prima metà degli anni ’90 si creò un nuovo contesto politico: fine della guerra fredda, crisi degli storici partiti unionisti, crisi del capitalismo di Stato italiano; processo europeista (nascita di nuovi stati indipendenti). Si crea uno spazio per una crescita della coscienza nazionale sarda, perché i messaggi indipendentisti possano concorrere con quelli dei partiti italiani, ormai slegati dalla propria forza ideologica e privi di organizzazione massiva. Crescono nuovi movimenti post-ideologici che raccolgono gli individui più consapevoli, tuttavia non tradottasi nella creazione di un movimento nazionale di massa (SN, iRS, ProgReS). A fianco di questi ultimi anche il movimento indipendentista aMpI, che si distingue per la sua ideologia marxista. Il fallimento del capitalismo di Stato ha portato all’irruzione delle multinazionali, verso cui la Regione Autonoma ha un ruolo del tutto passivo. Inoltre, il tentativo di creare un ambiente favorevole alla nuova economia ICT (Video On Line, Tiscali, Sardegna Ricerche) non ha dato i risultati sperati, non riuscendo a rompere interessi consolidati. Il fallimento del capitalismo di Stato ha portato all’irruzione delle multinazionali, verso cui la Regione Autonoma ha un ruolo del tutto passivo.

Oggi

Il disagio sociale, sebbene non direttamente indipendentista, si esprime attraverso lotte sardocentriche e rivendicazioni contro il centralismo: contro la speculazione energetica e la sottrazione delle terre; contro l’occupazione militare; referendum sulle scorie e sul nucleare; agenzia sarda delle entrate; protezione ed uso pubblico della lingua sarda.

L’ascesa della coscienza nazionale ed il credito acquistato da proposte indipendentiste negli ultimi venti anni, manifestatosi anche elettoralmente come mai accaduto nel passato (Sa Mesa de sos Sardos liberos 1996; iRS provinciali 2010; Sardegna Possibile 2014) ha portato al tentativo, da parte dei partiti unionisti, di bloccare il progetto, cercando di dipingersi come più sardisti. Il cosiddetto “sovranismo”- la collaborazione di una parte del movimento indipendentista con il centrosinistra italiano- è una manifestazione di questo tentativo di riorganizzare l’oppressione nazionale. Ciò potrebbe portare anche all’approvazione di provvedimenti positivi (esempio la legge salvacoste di Soru o, in futuro, la stessa Agenzia Sarda delle Entrate) ma non inquadrate in un progetto emancipativo ma solo al fine di bloccare un processo che potrebbe estendersi fino a minacciare la classe dirigente attuale. Un movimento nazionale di massa serve anche perché delle “conquiste” possano rimanere in piedi ed essere inserite in un progetto emancipativo. Basti pensare allo Stato sociale, concesso grazie alla forza dei Partiti comunisti e del movimento operaio, oggi in smantellamento in assenza di forti partiti a difesa degli interessi popolari).

La persistenza del colonialismo è ben testimoniata dall’esistenza di due nuovi progetti come Matrica (ENI Novamont) a Porto Torres o della centrale a biomasse nel Sulcis, ad opera della Mossi & Ghisolfi. Mentre la Sardegna importa la maggior parte dei cereali che consuma, migliaia di ettari vengono sacrificati in nome di interessi altrui.

Prospettive attuali per la lotta di liberazione nazionale e sociale sarda

Nodo cruciale: trasformazione dell’indipendentismo da movimento di individui a movimento di massa. (Esempio bolivariano).

Necessità di un forte Movimento di Liberazione Nazionale Sardo: blocco storico degli oppressi sardi- i direttamente danneggiati dalla dipendenza economica- contro il blocco unito dagli interessi in comune con lo Stato italiano. La Sinistra unionista- l’idea di una unione ncessaria del popolo sardo con il proletariato italiano- ha storicamente fallito nel suo progetto di emancipazione, ostacolando la formazione di coscienza nazionale e la creazione di un forte partito sardo di massa, risultando funzionale allo Stato, togliendo al popolo sardo la fiducia in se stesso, levandogli di dosso l’idea che la propria liberazione possa dipendere da esso solamente e non da una forza esterna alla sua volontà. La debolezza della Sinistra italiana ed il ruolo reazionario della borghesia sarda sono delle opportunità in più per una prospettiva di lotta popolare coerente in Sardegna (esempio basco e catalano: movimenti sinistra nazionalista crescono sul tracollo della sinistra spagnola, dal collaborazionismo del PCE per la “transizione democratica” in avanti).

La questione culturale è una importante arma contro l’apparato ideologico di Stato, per distruggere la coscienza soggettiva italianista ovvero l’egemonia culturale dello Stato italiano. La promozione dell’uso della lingua sarda in ogni ambito e la costruzione di un sistema educativo sardo sono i due punti più importanti.

Indipendentismo è Internazionalismo: la lotta di liberazione sarda non è in contraddizione con la lotta degli oppressi di tutto il mondo; solo gli oppressori- e i reazionari- hanno interesse a cnteporle. Dobbiamo costruire la Sardegna libera nel XXI secolo: la lotta nella nostra isola è legata con quelle emancipative in tutto il mondo, per l’indipendenza e la giustizia sociale: contro il neoliberismo, per l’ambiente, la giustizia sociale e la democrazia economica.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

– Girolamo Sotgiu, “Storia della Sardegna sabauda”, Laterza (1984)
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– Aldo Accardo, “La nascita del mito della nazione sarda: storiografia e politica nella Sardegna del primo Ottocento”, AM&D (1996)
– Aldo Accardo e Nicola Gabriele, “Scegliere la patria: classi dirigenti e risorgimento in Sardegna”, Donzelli (2011)
– Pietro Maurandi, “L’avventura economica di un cinquantennio” in “L’isola della Rinascita: cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna” a cura di Aldo Accardo, Laterza (1998)
– Francesco Floris, “Feudi e feudatari in Sardegna”, Edizioni della Torre (1996)
– Gianni Fresu, “La prima bardana: modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento”, CUEC (2011)
– Francesco Ignazio Mannu, “Su patriota sardu a sos feudatarios”, a cura di Luciano Carta, CUEC (2002

http://scida.altervista.org/le-ragioni-della-lotta-di-liberazione-nazionale-e-sociale-in-sardegna/