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Nazione abortiva (di Andria Pili)

orientamento scolastico arruolamentoIl 5 giugno scorso, il comune di Selargius ha dedicato una piazza ad Alessandro Pibiri, caporalmaggiore scelto della Brigata Sassari, in occasione del nono anniversario dalla sua scomparsa in un attentato a Nassiriya. L’evento mi ha toccato come selargino, fornendomi un’occasione per riflettere sui delicati temi della memoria dei caduti e sul rapporto tra la società sarda, i giovani ed il militarismo.

Gara di retorica militarista

Protagoniste della commemorazione le alte cariche militari della Brigata Sassari, il sindaco Gianfranco Cappai ed il cappellano militare Marco Zara. Tre pilastri dell’oppressione- Esercito, classe dirigente, Chiesa- uniti dalla medesima retorica.

Ad inaugurare la gara di eloquenza è Don Marco, il quale- prima di benedire la corona di alloro per il monumento funebre al sassarino- ha voluto evidenziare l’importanza del ricordo “che ci fa crescere e diventare uomini, sull’esempio di chi offre la sua vita per la libertà”.

La gara al più militarista è stata vinta ampiamente dal sindaco, il quale ha parlato di “debito di gratitudine verso i soldati caduti nella missione di pace”; “fiducia verso tutti i giovani in uniforme, animati da sani principi” i quali mettono a repentaglio “la vita per ristabilire condizioni di pacifica convivenza in terre lontane”. La denominazione della piazza sarebbe una “occasione per tributare ai nostri coraggiosi soldati (…) in particolare ai giovani della Brigata Sassari (…) il doveroso riconoscimento (…) per il servizio che rendono alla Patria”. Il sindaco del centrodestra unionista ha ricordato, come un vanto, che il comune ha dedicato alla Brigata Sassari un parco, oltre ad aver consegnato alla stessa una onorificenza. E ciò è stato fatto proprio in nome del “rapporto di reciproca stima che lega Selargius alla Brigata Sassari”. La scelta di dedicare il luogo al caduto nel 2006 è rivolta “ai giovani cui vogliamo proporre un modello, un esempio da seguire” oltre che un posto per “riflettere sui principi morali che hanno animato e animano i nostri soldati, giovani e meno giovani, in missione di pace, di farli propri nella vita di ogni giorno e viverli pienamente”.

Di fronte a questa grandiosa esibizione, il generale Nitti- dopo l’immancabile Preghiera del Soldato, in cui si chiede a Dio un aiuto per obbedire “alla Patria”, sebbene gli 800 euro mensili di un VFP1, i 950 di un VFP4, i 1400 di un VSP, più i 100 euro giornalieri per chi si trova in missione, dovrebbero già essere più che sufficienti allo scopo- non ha potuto che fare da accompagnamento al primo cittadino. Il Comandante della Brigata ha voluto ricordare un “concetto importante: i caduti in combattimento non sono eroi di altri tempi (…) ne abbiamo prova anche oggi dell’eroismo di chi opera nei teatri (…) Alessandro ne è la testimonianza”. Chi sono i caduti? “persone che hanno dato la vita per una causa giusta, per cui la Patria gli ha chiesto di operare”.

In sintesi: giustificazione morale del contributo militare italiano all’occupazione dell’Iraq; esaltazione dei soldati dell’Esercito Italiano; i caduti in missione come esempio da imitare per i ragazzi. Come era ovvio, nessuna riflessione veramente utile per i giovani sardi e mistificazione della realtà.

La cruda realtà, infatti, dice che: i soldati morti in Iraq sotto divisa italiana hanno dato la vita per l’imperialismo, durante un’occupazione militare che non ha migliorato la vita degli iracheni ma solo l’attivo delle multinazionali, come l’ENI, uniche ad avere un debito di gratitudine; la missione non è stata di pace, bensì di guerra – vedi la Battaglia dei Due Ponti ma anche il contesto in cui Pibiri stesso è morto, mentre scortava un convoglio logistico delle forze armate britanniche proveniente dalla provincia di Maysan, ove le truppe della Regina si sono distinte per violazioni dei diritti umani (vedi dossier Hague); i principi dei soldati non sono altro che una copertura ideologica, volta a dare dignità ad un impegno altrimenti inaccettabile sul piano etico e ad una scelta dettata da motivazioni economiche (nel 2007, il 70% delle richieste d’arruolamento proveniva dal Sud e le isole).

Per queste ragioni è necessario ribaltare il ricordo dei caduti: da eroi immolatisi per la giusta causa della “Patria” a vittime, ragazzi che avrebbero potuto dare un contributo alla propria comunità se lo Stato non gli avesse persuasi- specie con la sirena della “indipendenza economica”, sempre evidenziata dalla propaganda per l’arruolamento nel sito delle Forze Armate- a indossare una divisa. I giovani sardi, anziché farne un esempio da imitare, dovrebbero essere mossi da questo ricordo per lottare in nome del cambiamento di una società colonizzata, perché questa smetta di generare morti e dia modo a tutti di completarsi.

Figli della colonia Sardegna.

Il fatto che Alessandro Pibiri sia stato della mia città, abbia risieduto nel mio stesso quartiere, abbia frequentato le mie stesse scuole elementari, senza contare le comuni conoscenze, mi ha reso più evidente come io stesso avrei potuto essere come lui. Allo stesso tempo mi ha reso ben chiara la dimensione della tragedia- sebbene, nella grande maggioranza dei casi, chi indossa la divisa sia un privilegiato- per cui dei sardi sono caduti in missione “di pace”. Figli della Sardegna ma privi delle occasioni, delle esperienze, delle letture che hanno reso immuni dal militarismo italiano altri ragazzi come loro, minoritari almeno al tempo dell’occupazione dell’Iraq.

Figli di una scuola che non è volta ad educare i ragazzi al senso critico ma, al contrario, è veicolo dell’ideologia di Stato per cui i soldati italiani sono degli eroi, l’arruolamento nell’Esercito è un’occupazione come un’altra, anzi migliore, e le missioni di pace sono giuste. Indicativi sono certi temi imposti ai ragazzi delle scuole superiori, a volte per concorsi a premi ufficiali delle Forze Armate e della Difesa, come nel 2008 per l’ITC di Macomer “L’Esercito italiano una risorsa per il paese” o quest’anno per il centenario dell’ingresso italiano nella Grande Guerra. Educati, inoltre- questo è un grande punto distintivo rispetto alle altre regioni sfruttate della Repubblica- nella convinzione che la storia della Sardegna non esista, che la propria storia sia quella dell’Italia, quindi che questa sia la Patria da servire e la Repubblica Italiana l’istituzione cui è dovuta fedeltà. Posso raccontare due esperienze personali, come studente e come attivista politico: durante il mio ultimo anno di Liceo (2008/09) ho incontrato almeno 4 volte dei militari- due volte a scuola, una volta alla Fiera di Cagliari, un’altra volta all’orientamento universitario in Cittadella Universitaria ed oggi li avrei incontrati anche all’iniziativa OrientaSardegna- mentre non ho incontrato esponenti di altre professioni; da attivista dell’indipendentismo giovanile, durante un’assemblea di istituto, un ragazzino mi confidò di aver studiato la storia sarda soltanto come punizione, un compito aggiuntivo per essersi comportato male.

Figli di famiglie cattoliche, la cui Chiesa- dall’etica alterata- mentre non perde occasione per indicare a tutti il retto uso dei genitali e, alle donne, del proprio corpo, non ha mai usato la propria forza “spirituale” per orientare i propri fedeli contro la guerra imperialista. Quest’ultima, al contrario, è stata benedetta di fatto dalla presenza costante di uomini del clero ad ogni evento dell’Esercito Italiano e in maniera diretta dai discorsi dell’alto clero. Basti citare solo il discorso pronunciato dall’arcivescovo di Sassari, Paolo Atzei, durante una cerimonia al Sacrario Militare, lo scorso novembre: “valore delle missioni di pace (…) l’impegno dei soldati a tutela e protezione dei diritti dell’uomo e di tutti i popoli (…) un valore come il diritto alla pace va coltivato e rispettato, ma anche il valore della difesa della Patria e della comune fede cristiana (…) alla fine – quando ci sarà il giudizio universale– ci verrà chiesto se abbiamo agito in difesa di questi valori comuni o se ci siamo limitati a curare il nostro orticello”.

Figli di una società che ha interiorizzato il militarismo, dal mito del tributo di sangue dei sassarini sul Carso alle conseguenze sociali e culturali dell’occupazione militare, che ha convinto delle comunità di avere bisogno di basi militari anziché di progetti di sviluppo, soffocati dalla presenza delle servitù. Una società sottoposta alla dipendenza economica, incapace di fornire delle opportunità ai propri giovani: la Sardegna è ultima delle regioni dello Stato e tra le ultime regioni d’Europa (265^ su 269) per numero di laureati; seconda in Italia e nona in Europa per tasso di dispersione scolastica (23.5%), quindi pone sul mercato del lavoro un ingente numero di ragazzi destinati a lavori scarsamente qualificati e precari; gli studenti sardi sono intrappolati in circolo vizioso tra un’educazione scolastica e superiore che punta al ribasso e l’incapacità di assorbire coloro che sono altamente qualificati, costringendoli all’emigrazione giacché, nella nostra isola, andrebbero incontro a lavori sotto la propria competenza. In questo contesto, con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 50% e del tutto privi di una prospettiva di lotta come pure degli strumenti per distinguere il vero dal falso, è normale che i giovani della nostra terra considerino l’arruolamento una cosa giusta da fare.

Il sindaco di Selargius, con il suo discorso, ha dimostrato di essere parte della classe dirigente sarda che, ostinata esecutrice della propria funzione coloniale, continua nella produzione di “aborti” come se non ci fosse una via di uscita. Analogamente, la città che amministra è emblema della Sardegna tutta. Pensiamo alla costruzione di un grande centro commerciale (Bricoman) presentata come grande opportunità di lavoro, contro artigiani e piccoli commercianti, mentre numerosi negozi cittadini hanno chiuso i battenti. Guardiamo le vie che ricordano grandi eventi della Grande Guerra e del Risorgimento, le annuali celebrazioni del 4 novembre e notiamo come la celebrazione della presunta “italianità” sia accompagnata dal disprezzo per la propria storia; infatti, solo una conferenza in aula consiliare- nel 2011- per rievocare i tumulti selargini del 1779, precursori della Sarda Rivoluzione, mentre una croce del XV secolo viene sorpassata giornalmente da ignari automobilisti ed un villaggio neolitico (Su Coddu) viene “decorato” dal cemento e dai mattoni per la costruzione di graziose villette. Infine, osserviamo il cartello all’ingresso della città: CERAXIUS; simbolo di una comunità tanto abituata alla relegazione della propria lingua nel privato e nel solo parlato, da essere incapace di scrivere correttamente il proprio nome.

Spetta ai giovani più coscienziosi operare perché i propri coetanei non ripongano più alcuna speranza nello stato di cose presente. La lotta per la realizzazione di un ordine più giusto in Sardegna, contro la destinazione d’uso coloniale decisa dall’oppressore, ha nella cultura la sua arma principale. L’identificazione del nemico passa per la consapevolezza di sé, in particolare tramite l’uso della propria lingua e la conoscenza della propria storia. In concreto, è necessario combattere per un sistema educativo sardocentrico, l’uso del sardo in ogni ambito, la realizzazione di media pensati in sardo per i sardi. Questi sono gli strumenti per costruire un ambiente in cui i più giovani concepiscano la diversità della propria terra, della propria condizione sociale ed economica, diventino sensibili ai messaggi di autodeterminazione e quindi si uniscano alla costruzione di una Repubblica libera di individui liberi e completi

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“Le vite e i corpi nell’economia”. Sviluppo Umano ed economia di genere (di Antonella Picchio*)

Picchio Antonella

Intervista originariamente pubblicata da Editrice Socialmente (numero 9 – Dicembre 2011).

http://www.editricesocialmente.it/

http://www.editricesocialmente.it/interviste/articolo_63.htm
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Sviluppo Umano. Smith, Sen e l’Etica. Oltre l’utilitarismo (seconda parte)

sen_postcardDalla riscoperta di Smith alla confutazione dell’utilitarismo. Amartya Sen e l’Etica.

In “Etica ed Economia” (1987), Amartya Sen analizza in modo preciso ma con un linguaggio piuttosto semplice i limiti dell’economia come la conosciamo oggi, analizzando i principi fondanti il pensiero utilitarista.

  1. Comportamento economico e razionalità. L’economia neoclassica, all’interno dei suoi modelli di riferimento, ipotizza che il comportamento economico (behavioral economics) dei singoli individui sia razionale. Si suppone dunque che gli esseri umani si comportino razionalmente e, per assunto, si ritiene che il comportamento razionale coincida con quello effettivamente osservato. Chiaramente questa è una semplificazione economica e non coincide, come osservano Sen e altri, con la realtà che viviamo quotidianamente, con le sue contraddizioni, incertezze, rimpianti, cambi di decisione, sentimenti, desideri e passioni.È piuttosto intuibile come l’individuo freddamente razionale possa predominare nei libri di testo, ma il mondo reale nel quale l’animale sociale di Adam Smith si muove e prende delle decisioni è ben più ricco e complesso. Oltretutto, Sen osserva puntualmente due elementi di criticità dell’ipotesi di comportamento razionale degli individui nell’economia. Sen scandisce due passaggi. Il comportamento effettivo è caratterizzato attraverso un doppio processo: a) assumere, semplicisticamente, che il comportamento effettivo coincida con quello razionale e (come vedremo meglio successivamente) b) concepire la razionalità di un dato comportamento con termini ed una relativa scala valoriale alquanto ristretta.
  2. La domanda che viene da porsi, istintivamente, è: quando un comportamento viene considerato razionale o meno? In base a quali elementi possiamo determinare cosa sia razionale o meno? Il quesito, centrale, non è altro che l’esplicitazione di quanto detto in sub b). Come si può notare, le varie falle della teoria economica prevalente sono strettamente interrelate. Con razionalità si intende una coerenza interna di scelta e, dall’altro lato, la coerenza è concepita come massimizzazione dell’interesse personale da parte dell’individuo-decisore. È poco plausibile assumere la coerenza interna come condizione di razionalità in quanto se un individuo fa esattamente il contrario di ciò che lo aiuterebbe a ottenere ciò che vuole, e lo fa con una inflessibile coerenza interna, a ben vedere, difficilmente egli può essere considerato razionale. Questo buco concettuale, figlio di semplificazioni tipiche dell’economia moderna, implica che difficilmente l’ostinata coerenza dell’individuo possa essere considerata razionale, per quanto possa suscitare ammirazione nell’osservazione dato l’ardore e la tenacia di compiere l’azione “coerente”. Una scelta razionale dovrebbe comportare una corrispondenza tra ciò che si cerca di ottenere e il modo in cui si agisce per conseguirlo. In caso contrario, la coerenza interna come elemento di razionalità è pretestuoso e difatti la teoria economica cerca di far quadrare questi elementi introducendo la così detta funzione di utilità da massimizzare. Funzione che, per quanto il termine risulti affascinante e le elaborazioni matematiche alquanto complesse, in concreto poco e nulla ci dice circa ciò che l’individuo stia cercando “di massimizzare”.
  3. Con l’interesse personale e la sua massimizzazione, oltreché riguardare un aspetto interno come poc’anzi esposto, si fa riferimento ad una corrispondenza esterna tra le scelte compiute dall’individuo, ovvero l’ambiente che lo circonda e il suo interesse personale “da massimizzare”. La critica in questo caso verte sul chiedersi perché dovrebbe essere specificatamente razionale perseguire il proprio interesse personale ad esclusione di qualsiasi altra cosa e, da questo, naturalmente segue il chiedersi quali rischi si corrano all’interno della nostra società se gli individui prendessero, in nome della razionalità e dell’interesse personale, decisioni che unicamente pongono il proprio interesse personale sopra ogni cosa. Non è errato affermare che la massimizzazione del proprio interesse personale sia, a linee generali, un elemento di razionalità per l’individuo che compie delle scelte. D’altro canto appare quantomeno irreale e potenzialmente deleterio, far coincidere con l’irrazionale tutto ciò che non massimizza il proprio interesse personale. Oltretutto ad un’assunzione così forte dovrebbe quantomeno seguire la specificazione su cosa sia il proprio interesse personale. È curioso notare che la maggior parte delle decisioni degli individui nei propri rapporti interpersonali potrebbero essere additate come totalmente irrazionali in quanto gli sforzi e le azioni compiute non mirano alla massimizzazione di un interesse personale. Questo deriva dal fatto che gli esseri umani vivono in gruppi, o comunità, a loro volta spesso suddivisi in gruppi minoritari all’interno della stessa collettività. Ne consegue che l’equilibrio non sta nella massimizzazione di un appartenente al gruppo, ma dalla mediazione tra vari interessi riferibili a vari gruppi o persino ad un sacrificio del puro interesse personale per il benessere del proprio gruppo di riferimento. Appare dunque chiaro, ed è questo il focus del ragionamento che non viene colto dalla modellizzazione nell’economia mainstream, ovvero che gli esseri umani possano avere una pluralità di motivazioni e che il solo interesse personale, magari puramente monetario, non è in alcun modo sufficiente ad orientare le decisioni e guidare, in modo perfettamente univoco, le azioni. È infine opportuno notare come nella letteratura prevalente il pensiero di Adam Smith si basi sull’equivoco della dicotomia tra <egoismo> e <utilitarismo>. In realtà nell’espressione usata da Smith circa il proprio interesse personale si fa riferimento all’inglese “self-love”, ovvero amore di sé, cura di sé o, in altri termini, perseguimento del proprio benessere. Nei decenni addietro questo punto di vista è stato semplicisticamente e fraudolentemente trasportato in “self-interest”, che rappresenta la traduzione letterale di “egoismo”. In realtà, per Adam Smith “il benessere” è un concetto molto più ampio e ricco di sfaccettature rispetto alla semplice e astratta massimizzazione utilitaristica e questo è stato l’insegnamento maggiore del “Padre dell’Economia moderna”. Significativo a tal proposito l’incipit di Smith in Teoria dei Sentimenti Morali che racchiude questi concetti in poche ma significative parole.

Per quanto egoista lo si possa supporre, l’uomo ha evidentemente nella sua natura alcuni principi che lo inducono a interessarsi alla sorte degli altri e che gli rendono necessaria l’altrui felicità, nonostante ne ricavi alcunché, eccetto il piacere di constatarla.

Sviluppo Umano. Dalla critica del pensiero alla critica dell’economia capitalista (Introduzione)

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Gli ultimi decenni hanno assistito al dilagare dell’utilitarismo economico e dei suoi stereotipi culturali in ogni ramo della società civile e della produzione, coinvolgendo anche quei settori storicamente associati a pubbliche funzioni per le quali – a grandi linee – ci si è sempre tenuti a debita distanza da approcci orientati al profitto individuale o di poche corporazioni.

Prima che Amartya Kumar Sen (di seguito Sen, Santiniketan, 1933 – vivente) si concentrasse su un nuovo modo di concepire l’economia, aprendo nuovi spazi di analisi e di dibattito economico e politico, ha analizzato una corposa letteratura pregressa. Un nuovo approccio economico (non un modello, meno che mai una ricetta) come lo Sviluppo Umano (di seguito SU) e le politiche pubbliche che ne conseguono non partono quindi dall’anno zero.

Gli studiosi dello SU hanno formalizzato ed esteso concetti già presenti nella Storia in generale e in quella del Pensiero economico nello specifico. Lo SU riguarda tutti gli ambiti fondamentali dello sviluppo economico e sociale, aspetti che per loro natura si trovano da secoli al centro della vita degli individui, ancorché in molti casi siano stati formalizzati e istituzionalizzati in tempi recenti mentre, a livello sostanziale, ancora oggi diffusamente si è lontani da un pieno compimento.

Ci si riferisce così alla promozione dei diritti umani e all’appoggio alle istituzioni locali, al diritto alla convivenza pacifica, alla difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile delle risorse territoriali, lo sviluppo dei servizi sanitari e sociali con attenzione prioritaria ai problemi più diffusi ed ai gruppi più vulnerabili, il miglioramento dell’educazione e dell’informazione della popolazione, con particolare attenzione all’educazione di base, lo sviluppo economico locale, l’alfabetizzazione e l’educazione allo sviluppo, la partecipazione democratica, l’equità delle opportunità di sviluppo e d’inserimento nella vita sociale.

I “segni” più visibili e comunemente conosciuti circa lo SU sono rappresentati con dalla nascita del Human Development Report da parte dell’ONU (1992) e il Premio Nobel all’Economia ad Amarthya Sen assegnato nel 1998.

Alcune radici filosofiche e logiche dell’approccio moderno allo Sviluppo Umano.

È opportuno precisare che le origini dello SU sono da rintracciarsi primariamente nella differenza di un giudizio valoriale sulla disciplina economica come parte integrata e integrante della ricerca sociale. Frequentemente si tende a risolvere la questione alla radice e affermare posizioni che tendono a sterilizzare l’analisi economica da qualsiasi giudizio etico e morale. Un celebre neoliberista, Milton Friedman, alla domanda sul ruolo sociale e le implicazioni etiche delle attività economiche rispondeva semplicemente che “lo scopo degli affari sono gli affari!” (gioco di parole: the business of business is business!).

Come si vedrà meglio in seguito, Sen non ha mai nascosto la propria ammirazione e  non ha mancato di attingere al contributo del “padre dell’economia” ed (erroneamente) fautore del moderno Capitalismo: Adam Smith.

Una prima premessa quindi va fatta piuttosto sul pensiero economico e su come l’economia venga comunemente percepita e istituzionalmente organizzata. La presenza di tematiche economiche in ogni fonte di informazione, esposte in modo più o meno rigoroso e con cognizione di causa variabile, ha portato nell’immaginario collettivo l’idea di un’economia totalizzante, ossessiva, vista prevalentemente come portatrice di nuove tasse, di nuove e vecchie “crisi” e sventure in genere. Il termine economia è diventato progressivamente un contenitore nel quale inserire le cause di un po’ tutto ciò che scontentasse l’opinione pubblica, sino a far inquadrare “l’economia” come autoreferenziale e astratta. Ciò ha originato due conseguenze principali e strettamente interrelate. La prima è stata far intendere l’esistenza di un unico pensiero economico e la seconda è il disinteresse crescente nel dibattito pubblico circa il pensiero economico e l’esistenza di una grezzamente nota “altra economia”. La progressiva finanziarizzazione dei rapporti economici e la speculazione monetaria hanno fatto il resto nel confondere l’opinione pubblica e creare grandi “luoghi comuni” economici. Progressivamente questi elementi hanno dato vita ad un paradosso all’interno dell’ampio mondo delle scienze sociali. Da un lato, alcune discipline sono state esaltate nel loro aspetto ingegneristico mentre dall’altro si sono svilite e stigmatizzate materie come la sociologia, la filosofia e l’antropologia. Ad essere formalmente precisi anche quanto appena scritto non è corretto: l’economia non è una disciplina a se stante e nell’ambito della ricerca sociale sono altrettanto fondamentali le materie oggetto di oscurantismo sopracitate e sono così fondamentali dal renderne persino pericoloso il distacco. In questo lo SU costituisce una sorta di ponte che riequilibri il peso delle varie discipline all’interno della ricerca sociale.

In senso stretto l’economia è una “disciplina multidisciplinare” in quanto gli studi economici affondano le loro radici nell’Etica, da un lato, mentre dall’altro si rifanno all’Ingegneria. Entrambe questi aspetti si ricollegano, gioco forza, alla Politica e oltre risalire a studiosi quali Adam Smith e Karl Marx, l’idea dell’economia al servizio della politica viene fatta propria già da Aristotele in Etica Nicomachea.

La concezione dell’economia al servizio delle scelte politiche è antitetica all’esaltazione del suo aspetto ingegneristico che degenera in forme di tecnocrazia statale e perde completamente la percezione della realtà a livello di peculiari sistemi socioeconomici meno estesi. In questo modo le scelte di politica economica che derivano dalla reale rappresentanza dei cittadini e di processi decisionali dal basso, vengono sostituiti dal volere e dagli scopi riferibili ai detentori dei mezzi di produzione in un preciso momento storico. Così facendo tali decisioni esulano sempre più dai processi democratici che dovrebbero essere in realtà essere ben più estesi e profondi.

Molti continueranno a pensare: cosa hanno in comune Etica ed l’Economia? Cosa possono avere in comune principi morali e soldi? Si potrebbe rispondere citando l’espressione diritto di proprietà, che rimanda da un aspetto giuridico-politico ad uno puramente economico-monetario. Il secondo è la diretta conseguenza del primo. Per questa ragione nell’insegnamento dell’economia spesso il punto di partenza non riguarda un elemento giuridico o politico. L’economia parte dal considerare date certe condizioni. Ad esempio, Y= f (K;L), nota come funzione di produzione dell’impresa. Questa equazione rimanda costantemente ad un sistema economico improntato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Questo non è l’unico approccio economico esistente e la funzione di produzione dell’impresa non è il fulcro sul quale basare il nostro sistema di vita.

Tale sistema discende da una specifica organizzazione giuridica e degli equilibri politici all’interno della società che, per definizione, non sono immutabili. Come si vedrà meglio in seguito, Etica ed Economia hanno molto in comune mentre, d’altro canto, gran parte degli assunti capitalistici e neoliberisti costituiscono forzature e palesano lacune da un punto di vista prima di tutto logico ancorché umano.