Politica. Lettera ad un comunista sardo (di Cristiano Sabino)

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Lettera ad un comunista sardo (di Cristiano Sabino)

Caro compagno… posso chiamarti ancora così o provi imbarazzo dopo tutto ciò che è accaduto al nostro movimento internazionale? A me piace ancora questo detto, “stesso pane”: esprime ciò che volevamo essere e la radice della società nuova che volevamo costruire.
Te la ricordi, dico, la società per cui ci battevamo? Libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, autodeterminazione e indipendenza dei popoli e pace.
Mi ricordo quando, con la tua bella bandiera rossa, ti imbarcavi ad Olbia per andare a manifestare a Roma. Cantavi risonanti canzoni partigiane ed eri un fremito perché scendevi in piazza contro il tiranno di Arcore pieno di tutte quelle buone ragioni che leggevi sul Manifesto o su Liberazione.
Spesso ci siamo incrociati nelle strade e nelle assemblee. Mi sentivo così vicino ai tuoi ideali e ai colori che indossavi, ma appena iniziavamo a discutere mi accorgevo che una voragine impronunciabile ci separava. Usavamo le stesse parole ma il senso era profondamente diverso.
Sembrava che nei tuoi racconti la Sardegna scomparisse o esistesse soltanto in funzione dell’Italia, come una sua “regione”. Tutto ciò che di importante animava le tue narrazioni avveniva a Roma, Milano o qualche altra città continentale e tu stesso ti collocavi alla periferia di ciò che avveniva di bello, importante e mobilitante. Che tu fossi di Rifondazione, antagonista, disobbediente o chissà che altro, la Sardegna e le sue lacerazioni secolari scomparivano nelle tue belle e combattive parole.
Quando il discorso si spostava sulle lotte dei popoli oppressi l’incomprensione aumentava. La Palestina, il Kurdistan, persino il Paese Basco e la Corsica erano lotte degne di nota mentre la Sardegna era e restava una regione periferica nei tuoi pensieri. Andavi ai corsi di catalano organizzati dall’Università e quando ti davo un volantino scritto in sardo protestavi chiedendone uno in italiano. Mi parlavi della morte dell’identità e dell’internazionalismo proletario senza più frontiere, prendendomi in giro per il mio passatismo indipendentista; poi ti mettevi la maglia azzurro-savoia e andavi a festeggiare quando vinceva quella che tu continuavi a chiamare “nazionale” italiana. Dicevi di essere cittadino del mondo e in effetti lo eri, cittadino di un mondo diviso in stati che tu chiamavi nazioni, dove ai popoli veniva progressivamente proibito tutto per dominarli meglio: lingua, abitudini, cultura ed esercizio della memoria storica.
No, il rosso della mia bandiera non era lo stesso rosso di cui tu coloravi la tua.
Mi dicevi che il partito comunista deve essere grande e che “non possiamo fare da soli” e io non riuscivo a capire questo ragionamento, perché il partito comunista è nato come una organizzazione internazionale per fare la rivoluzione e rovesciare lo stato di cose presente, e non per fare il pilastro patriotticico ad uno stato inventato dalla borghesia e dalle classi possidenti sue alleate.
Mi dicevi che bisognava salvare il “nostro paese” dalle grinfie di Berlusconi e quindi bisognava fare fronte comune e io faticavo il doppio a capirti. Da una parte non riuscivo a sentire mio quello stato nato con una “rivoluzione passiva” a rimorchio di equilibri internazionali reazionari – Gramsci lo leggevo anche io, anche se mi davi del nazionalista – e poi non capivo come facessi a confidare in quella massa di funzionari e burocrati che avevano distrutto il movimento comunista sciogliendolo in una “cosa” che odorava di ultraliberismo guerrafondaio a chilometri di distanza.

Abbiamo preso strade diverse io e te. Io ricostruivo con pazienza la storia di quello che era stato il tentativo del Partito Comunista Sardo, tu intanto ti spostavi sempre più a destra ingoiando rospi su rospi pur di “battere le destre”. Oggi ci incrociamo per strada e quasi manco ci salutiamo con un cenno.
Le nostre diversità sono venute fuori come ferite a cielo aperto. Tu non usi più la bandiera rossa. Nel frattempo hai fatto carriera, oppure sei passato al qualunquismo organizzato o ti sei dato all’associazionismo per non sentire il peso della tua coscienza in fiamme. A volte ci ritenti come quando hai aderito da poco all’ennesima rifondazione dell’ennesimo partito comunista in cui la Sardegna, i sardi e la lotta alla colonizzazione non hanno alcuno spazio e nessuna importanza, anzi semplicemente spariscono sotto al tricolore bello in vista che continua a campeggiare nel simbolo.
Io sono orfano del tentativo di costruire un partito comunista sardo o per lo meno un partito dei lavoratori sardi, come spesso usavamo chiamarlo all’orientale.
È vero, neanche il mio indipendentismo sta tanto bene. Da movimento di critica al sistema e alla radice stessa dello sciovinismo italiano è diventato altro. Paradossalmente ha preso le stesse brutte malattie della sinistra italiana: opportunismo, clientelismo, trasformismo, leaderismo condizionati dai salotti televisivi e dalle colonne dei giornali di proprietà dei possidenti.
Ma no, non ho cambiato bandiera. Liberazione nazionale e liberazione sociale sono sempre la mia bandiera, la mia unica bandiera, visto che si tratta di due facce della stessa medaglia. La pace, la giustizia, la libertà e l’eguaglianza rimarranno miraggi se non partiremo da qui, se non metteremo in cima ai nostri pensieri la Sardegna e i sardi, riconoscendone l’oppressione secolare e la necessità di fare pulizia in questa terra di tutto ciò che la ammorba e la opprime a partire dal clientelismo e dalla corruzione che rende irrespirabile l’aria. Ma senza il rosso vivo della nostra bandiera le cose prenderanno una brutta piega, il trasformismo sarà eretto a sistema e i sardi si lasceranno andare al razzismo più bieco, convinti che i loro nemici e la causa dei loro problemi sono i quattro disperati che arrivano in cerca di lavoro e di speranza, anziché le multinazionali senza scrupoli che hanno occupato e sfruttato fino al midollo la nostra terra, usandoci come bracciantato a poco prezzo finchè ne avevano bisogno e come discarica a cielo aperto una volta terminato il ciclo produttivo.

No, non ti sto proponendo di entrare in nessun partito, non c’è un partito comunista e indipendentista sardo. In realtà non ti sto proponendo nulla, perché non credo di avere nulla da proporre a nessuno. Sto solo ragionando a voce alta, perché nel farlo continuo a vedere quella società di libertà, democrazia, giustizia sociale, uguaglianza, autodeterminazione, indipendenza e pace che prima o poi – ne sono certo – tante braccia e tante teste costruiranno in questa terra, liberandola da seicento anni di schiavitù e dimenticanza.

http://www.manifestosardo.org/lettera-ad-un-comunista-sardo/

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