Pace sociale vs Università di classe*

 

Fonte slide: Roars.it
Fonte slide: Roars.it 

*Pubblicato originariamente 21 ottobre 2012

In questi giorni sul web ha tenuto banco la notizia che il governo “tecnico” ha deliberato 233 milioni di euro a beneficio del sistema di istruzione privato. Nel giro di poche ore blog e post si sono intasati con mille cori di polemica, sdegno e insulti. Facciamo un punto della situazione in merito all’attuale situazione.

I primi interventi sul sistema universitario nel 2008, passando poi per le proteste dei ricercatori nel 2010 e di quelle degli studenti durante gli ultimi quattro anni, danno complessivamente un’idea dell’ evoluzione dell’università pubblica italiana.

In breve. Uno dei centri nei quali viene allocato la maggior parte del finanziamento degli atenei prende il nome di Fondo di Funzionamento Ordinario. La dotazione complessiva viene poi ripartita tra i singoli atenei sulla base di vari criteri quali la dimensione, la qualità dell’offerta formativa, i servizi offerti. Oltre alle risorse del FFO, gli atenei possono finanziarsi tramite le tasse applicate agli studenti. A tal proposito ad oggi vige un principio sancito dalla legge, ovvero che le tasse riscosse non eccedano il 20% del sovvenzionamento statale. Il principio è chiaro: se si lega eccessivamente il finanziamento della fornitura del servizio alla capacità contributiva dei fruitori (gli studenti) si tenderebbe, nel giro di poco tempo, ad escludere dalla formazione universitaria un’ampia fascia di popolazione. Molto ampia.

Quindi, anche sulla base di articoli costituzionali come il n. 33 e il n. 34, lo stato interviene assicurando un finanziamento tramite l’FFO per 5/6 del costo totale, indipendentemente dalla capacità di contribuzione degli studenti.

Bene. I tagli al finanziamento dell’università pubblica, proprio al FFO del quale si parla, ormai sono sotto gli occhi di tutti da vari anni. Ad esempio, al 2011 il Fondo di Funzionamento ha potuto contare su quasi il 12% in meno di risorse rispetto al 2008. Complessivamente dal 2008 al 2013 (ormai ci siamo quasi) l’FFO passa da una dotazione di 6,867 miliardi a 5,822 miliardi, con una diminuzione di ben il 15% in cinque anni.

Non è per voler guardare gli interventi sull’università solamente sotto l’ottica del finanziamento e qui criticarla sempre, ma l’inasprimento più consistente di quelle che vengono chiamate riforme sull’università è stato proprio incidere pesantemente sul FFO che, come fatto notare nel dicembre del 2011 dal prof. Paolo Silvestri, docente dell’Università di Modena e Reggio Emilia, nel “2011 risulta tagliato rispetto al 2010 di 284 milioni, dopo che era già stato decurtato nel 2010 di 277: un calo del 7,5% in un biennio“.

La domanda è: questo è da considerarsi o no un vero e proprio smantellamento del sistema universitario pubblico?

In un passaggio del suo articolo, “Povera università: il governo degli atenei in epoca di tagli“, ancora Silvestri riporta:

Le due manovre di contenimento – rispettivamente, sulla dimensione dell’offerta formativa e sulle nuove assunzioni – non sarebbero comunque compatibili con un significativo taglio delle risorse, se nel frattempo non si fosse verificato un altro fattore permissivo, ovvero una forte accelerazioni delle uscite dai ruoli universitari. Questa dinamica è la conseguenza, da un lato, dell’elevata età del corpo accademico e, dall’altro, di una serie di provvedimenti presi negli ultimi anni volti ad abbassare l’età pensionabile e a incentivare le uscite. Ecco dunque che (potenzialmente) si liberano risorse nei bilanci delle università e che si presenta l’occasione per ridurre i finanziamenti, occasione che il governo ha prontamente colto a partire dal 2010“.

Se le risorse destinate al FFO si riducono in modo sensibile allora, progressivamente, dovrà aumentare la parte di finanziamento che gli atenei coprono grazie alla tassazione riscossa. Sino a qualche anno fa la percentuale media praticata dagli atenei era inferiore al limite del 20% sancito dalla legge e, di conseguenza, vi era un margine sul quale intervenire. Col senno del poi si può dire che in molti casi si è intervenuto in modo piuttosto consistente, nonché sforando anche i limiti di legge. Ad oggi infatti, secondo i dati dell’UDU, Unione degli universitari, ben 36 atenei italiani non rispettano il limite del 20%, a volte in modo piuttosto marcato come nel caso di Bergamo che si colloca in cima a questa particolare classifica con il 42%. Complessivamente, sempre secondo la ricerca condotta dall’UDU, gli atenei coinvolti richiederebbero agli studenti circa 250 milioni di euro in più rispetto a quando dovuto per legge.

Ma, per quanto questa possa essere una violazione di legge, è un risultato ovvio e l’ateneo in sé non ha responsabilità, anche se nella propria autonomia quota parte gliene spettano ad altri livelli e di differente entità. Questo alla luce della retribuzione di rettori, vicari, dirigenti, direttori, funzionari amministrativi e chi più ne ha più ne metta. Essere alle prese con le centinaia di milioni di taglio al FFO e sapere che nel 2010 solo l’Ateneo di Bologna ha speso oltre 15 milioni di euro per la retribuzione dei rappresentanti degli organi accademici, in diminuzione rispetto agli oltre 17 del 2010. Ma questa è, come detto, un altro livello. Un altro pezzo della storia…

Se alcune leggi o provvedimenti limitano il finanziamento proveniente dallo Stato è ovvio che questo minor finanziamento dovrà pur “riassorbirsi” da qualche altra parte. Tra i vari scenari possibili in futuro se ne possono descrivere un paio.

In primo luogo, non stupirebbe se in un futuro non troppo lontano si decidesse di eliminare il citato limite del 20%, dando via libera ad un finanziamento privato selvaggio, che a quel punto dovrebbe imporre una tassazione fortemente progressiva sugli studenti provenienti da famiglie particolarmente abbienti. In caso contrario si rischierebbe di escludere un’ampia fascia di popolazione o comunque, pur non parlando di esclusione, questo comporterebbe di sicuro un aggravio determinante per una famiglia dal reddito medio che mantenga i propri figli all’università e che ha con tutta probabilità già visto diminuire le proprie capacità economiche negli ultimi anni di crisi.

Da segnalare che, come alcuni avranno già intuito, in questo assetto si va incontro ad un’aporia: in virtù dei tagli al FFO, le università devono teoricamente diminuire anche le tasse agli studenti, in quanto il suddetto 20% è calcolato su quanto corrisposto dal fondo statale, aggravando così l’effetto del taglio del Governo sui loro bilanci.

Un altro scenario potrebbe essere quello di mantenere da parte degli atenei una tassazione quanto più bassa possibile (anche per evitare una cattiva pubblicità data da tasse che vengono incrementate annualmente) soprattutto per quanto riguarda le famiglie meno abbienti. Questo però, complici i tagli al FFO, potrebbe concretizzare uno scadimento della didattica e dei servizi resi. Ed è ovvio che in un sistema universitario che perde i pezzi ci sono persone che possono permettersi un’ampia gamma di scelte mentre altri galleggiano tra l’eventualità di un’iscrizione o un abbandono degli studi. Da sottolineare che l’organizzazione, nonché i continui ritocchi del finanziamento, del DSU (Diritto allo Studio Universitario) non agevola sicuramente.

Di quali scelte parliamo? Andare all’estero ad esempio, oppure scegliere di frequentare università private in Italia (vedi recente regalia di 233 milioni).

Appare troppo pessimista questa visione? Forse sarà perché, semplicemente, dal 2008 (e non solo) le cose vanno sempre peggio. Oltre un miliardo in meno in cinque anni. Proteste tante, anche forti, ma intanto – democraticamente – svariati finanziamenti confluiscono sistematicamente verso tutt’altro come le spese militari, sempre poco inserite nel dibattito della revisione della spesa e, soprattutto, della morale.

Un popolo ignorante è addomesticabile, gestibile e ci vogliono tutti ignoranti. Spesso si sentono discorsi di tale portata e probabilmente, in parte, è vero. Ma se uno degli scenari, o un po’ di ognuno a seconda delle circostanze, si verificasse non dovremmo parlare di un generico e qualunquista tutti da mantenere nell’ignoranza tramite lo smantellamento dell’università pubblica. Dovremmo parlare di altro, o meglio, dovremmo specificare quel “tutti”. Dovremmo parlare di un’università di classe. Un assetto economico preesistente (fortemente sperequato) che influenza in modo determinante la possibilità di ricevere un certo grado di istruzione all’interno della stessa società, gettando le basi per un ulteriore allargamento della forbice nella distribuzione. È uno scenario distopico? Vedremo.

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