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Estero. Roma: il nuovo modello di gestione delle Città (II parte, di Marco Piccinelli)

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Il caso dei QRE – Quartieri Riuniti in Evoluzione

Le proteste si susseguivano rapide una dopo l’altra: Tor Sapienza, Corcolle, Alessandrino, le borgate del quadrante sud-est erano una polveriera pronta a scoppiare. A cavallo tra 2014 e 2015 nascono i QRE, un’organizzazione che mette insieme tutti i comitati di quartiere, associazioni di municipi e simili: tale federazione di comitati, per così dire, non possedevano un’unica ragion d’essere né delle azioni uniche dal momento che – per l’appunto – tale organizzazione rappresentava un raggruppamento di diverse realtà.
Perché usare l’imperfetto? Perché, in buona sostanza, la creazione dei QRE è stata, almeno a parere di chi scrive, funzionale al processo e alla volontà dei settori dissidenti delle organizzazioni politiche capitoline maggiori ad andare alle urne in tempi brevi. Incanalare disagio e problematiche territoriali in un’unica organizzazione, seppur federativa ma che riguardava la Capitale nella sua interezza, era pur sempre un segnale di cui il Sindaco doveva tener conto, politicamente e non; strumentalmente e non.

Tuttavia, il piano è saltato dal momento che Marino, tutto sommato, deve poter continuare agonizzante sotto commissariamento e gestioni straordinarie (come quella per il Giubileo) attraverso le quali far passare una serie di norme impopolari giustificate dall’eccezionalità/crucialità del momento. I QRE si sono sciolti come neve al sole, in men che non si dica, e hanno avuto caratteristiche diverse nei vari municipi in cui sono stati costituiti: in alcuni propugnando una linea di dialogo con l’amministrazione capitolina, in altri di contestazione, ma sempre su stampo delle proteste di Torre Angela, Corcolle e Tor Sapienza. Nelle borgate del quadrante sud-est, per ora, i QRE sono totalmente spariti.

    La protesta dei macchinisti, la municipalizzata per eccellenza

Ultimamente, le posizioni della della destra romana sono sintetizzabili negli slogan di contestazione al Sindaco riguardanti la mobilità e l’impossibilità di avere un servizio di trasporto pubblico degno della Capitale di uno Stato. Il punto – tralasciando le contestazioni di chi ha governato la città precedentemente – è che proprio sotto la giunta Alemanno sono sorti gli scandali delle assunzioni scriteriate nella municipalizzata dei trasporti (Atac) non dei macchinisti, ma di componenti la dirigenza della stessa azienda. Ricordare quanto avvenuto sotto la Giunta Alemanno sarebbe stato, sicuramente, utile ai più per la comprensione di una fase letteralmente impazzita, come scritto sopra, ma è molto più facile iniziare una campagna di attacco allo “sciopero bianco dei macchinisti che protestavano per il mancato raggiungimento dell’accordo con il Comune riguardo le ore di lavoro”, così com’è stato affermato da più parti nei media.

Via, dunque, con video amatoriali che raccontano dell’indignazione totale nei confronti dei macchinisti che viaggiano con le porte aperte della metro; via con le sassaiole al vetro del primo vagone della Roma-Lido, blocchi di binari etc etc. E’ bene, però, non soffermarsi sulla cronaca spicciola dal momento che è stata riportata e fatta rimbalzare su internet dai network con poco seguito fino all’Huffington Post, dal Corriere della Sera fino al Piccolo di Trieste. E’ più che doveroso, invece, far luce su quello che avviene dopo tali proteste (per cui ‘i cittadini’ – avviati verso il grado zero della coscienza sociale – hanno iniziato ad additare i macchinisti come causa di tutti i mali e non, al contrario, l’azienda e il sistema di gestione clientelare che l’ha cooptata per anni): Ignazio Marino afferma che non c’è possibilità di trovare un accordo con le parti sociali e quindi c’è la necessità di «trovare un nuovo partner per Atac».

«Ho deciso di cambiare il cda dando mandato al dg Francesco Micheli di rinnovare profondamente il management aziendale allontanando tutti i dirigenti responsabili delle inefficienze” L’alternativa era portare oggi (25 luglio 2015, data della conferenza stampa in cui annuncia la privatizzazione de facto di Atac nda) i libri in tribunale: sarebbe stata la soluzione più facile ma penso che possiamo farcela senza procedere a un finale così drammatico».

Partner industriale e municipalizzata è un binomio che porta dritto ad una privatizzazione, attraversando una fase di gestione straordinaria dell’azienda in cui i suoi vertici contino estremamente poco. Il comune, dunque, nella figura di Marino dichiara che l’azienda del trasporto romano non può uscire dalla crisi economica e organizzativa senza trovare un partner industriale e anticipare la privatizzazione prevista definitivamente entro il 2019.

Il trasporto pubblico, dunque, è una sorta di scalpo da mostrare all’opinione pubblica, sempre più rappresentabile attraverso il corpo del Cristo morente fra le braccia di Maria della Pietà e, finalmente, le varie amministrazioni sono riuscite nell’operazione di rendere così scadente il trasporto pubblico al punto di far passare il messaggio che solo svendendolo ad un privato si potrà migliorare la situazione. La privatizzazione, in sostanza, è la panacea di tutti i mali: il trasporto pubblico è scadente, i macchinisti non svolgono il loro lavoro, “la metrro non ppasa mai!!1!1!” ed è indecente che rimanga così, in fondo i termini di paragone nelle chiacchiere da bar (Berlino, Madrid, Parigi) non reggono il confronto con le due metro e mezza di Roma.

Ancora una svendita, in sostanza, e all’annuncio di Marino i grandi gruppi industriali, il Capitale, la stampa che conta, non ha battuto ciglio sulla decisione del Primo cittadino e- per la prima volta – ha avuto il ‘placet’ sui titoli delle cronache romane piuttosto che gli attacchi a 360°. La crisi di Atac (ed il suo fallimento) non va certo ricercata nella mancanza di fondi o professionalità da parte dei lavoratori, ma solo nell’inettitudine dell’amministrazione e nell’interesse dello Stato nella svendita di pezzi di res publica.

Italia. Circo politico itinerante verso la guerra civile

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Il sobrio tweet dell’asolescente Renzi sulle elezioni     regionali in Emilia Romagna e Calabria.

Toni mortificati, non più tardi di qualche giorno fa, per l’attentato incendiario ad una “vela elettorale” di Forza Italia a Modena. Solidarietà da parte di tutti nei confronti di Galli, candidato forzista.

Ora appaiono dettagli. Avrebbero mai immaginato la fuga dalle urne che attendeva tutti, forzisti e non? Altroché atto vandalico, l’Emilia si è risvegliata con un’aria più tesa che mai e un astensionismo record: forzisti all’8% e astensione al 63%. Il messaggio è: non rappresentate nessuno. Date le storiche percentuali di partecipazione al voto in Emilia Romagna, il vuoto percepito amplifica i “dati disarmanti“, come li ha definiti Civati cuor di leone: 30 punti percentuali in meno rispetto al 2009 , in calo a sua volta rispetto al 76,6% del 2005.

Per rendere l’idea basti pensare che in Emilia il secondo candidato più votato, Alan Fabbri (Lega Nord con l’appoggio di quel che rimane di FI e Fratelli d’Italia) esulta mentre il vincitore (Bonaccini, sostenuto da PD, quel che rimane di SEL, Centro Democratico e una civica) si esprime indossando guanti di velluto prima delle dichiarazioni di rito. Renzi no. Alza ancora l’asticella della tracotanza.

Il PD migliora, arriva quasi al 45% come voti di lista. Questo farà la felicità di Renzi, Boschi e la Barracciu. Con o senza tessere, con o senza elettori, il PD controlla pressoché tutto. In genere in questi casi si passa dal controllo di tutto all’implosione.

Il 45% sul 37,8% degli aventi diritto (con quasi il 4% tra schede nulle e bianche) significa che il principale partito rappresenta all’incirca 15 elettori su 100. In pratica, un’egemonia del nulla e il Partito della Nazione che hanno in mente Renzi e Berlusconi si fa sempre più tangibile. D’altronde il maggior accessorio del Partito Democratico, Sinistra Oncologia e Libertà, si è liofilizzato con meno del 4% e ha pagato la totale organicità al PD, sia in termini di astensione che di voti andati ad una candidata minore, la professoressa Maria Cristina Quintavalla (lista L’Altra Emilia Romagna), coda lunga di Tsipras delle europee di maggio. Sei mesi fa 3,66% nel Nord-Est oggi, con una campagna elettorale a basso costo, si riconferma ottenendo il 4% e un seggio. Sarà interessante seguirne eventuali alleanze e lavori in consiglio, soprattutto alla luce delle ragioni che hanno dato vita ad una lista di rottura con PD e SEL, con quest’ultimo accusato duramente di ambivalenza con un Governo sempre più inviso ai cittadini.

In terza piazza i grillini ai quali spetta un capitolo a se stante. L’Emilia ha visto nascere il M5S, lo ha visto “strutturarsi” e prendere i primi incarichi “di peso” come il municipio a Parma. Qui sono iniziate pure le frizioni e la lista M5S “ufficiale” (candidata Giulia Gilbertoni) vede tra i diretti avversari una lista nella quale spiccano senatori e deputati che hanno rotto con Grillo e che hanno sostenuto l’imprenditore Maurizio Mazzanti (Liberi cittadini per l’Emilia Romagna) già consigliere di minoranza a Budrio che si attesta all’1,12%.

A parte la Lega Nord che esulta sfiorando il 20% e piazzando otto consiglieri nella nuova assemblea regionale, i vari candidati e partiti misurano le parole di fronte alle telecamere visto che 62 elettori su 100 non si sono recati alle urne, e questo rimane il dato politico macro più rilevante, soprattutto in Emilia.

La Gilbertoni, in controtendenza, sfoggia toni aggressivi a caldo, con lo spoglio ancora ad un quinto delle sezioni. A vederne la sicumera apparirebbe un 71%.

Attribuisce la scarsa affluenza all’oscuramento mediatico delle reti nazionali, parla di un problema astensionismo imputabile al governo, ai partiti, agli altri. Dice che questo è un risultato “che farà la felicità dei sociologi“, alludendo alle bordate di analisi politiche che il M5S sta incassando in queste ore. “Mi hanno fermata, in giro, e la gente non sapeva cosa si sarebbe votato. Ci chiediamo perché il governo non abbia informato i cittadini su queste elezioni“. Infine chiude con due battute. “Il lato positivo è che ora abbiamo cinque anni davanti per parlare con le gente” (si commenta da se) e un matematicamente ineccepibile “sappiamo che molti che votavano M5S hanno votato Lega“.

Poco rileva nell’analisi grillina che Beppe Grillo abbia di fatto snobbato la campagna elettorale emiliana. Mentre il M5S emula Di Pietro con la retorica legalitaria di nessun indagato nelle liste, Salvini batte a tappeto tutte le province innaffiando la campagna elettorale di razzismo e demagogia manco fosse sano Lambrusco. Ma questa è la gattopardesca politica italiana. Grillo ha dichiarato pochi giorni fa che il risultato sarebbe stato ne più ne meno quello poi registrato alle urne. “Quattro o cinque consiglieri, non di più” – avrebbe riferito ai fedelissimi in una timida chiusura di campagna elettorale. Atteggiamento al ribasso, politicamente marginale. Di rendita da bacino elettorale, in stile quasi democristiano. Al M5S va bene così, agli eletti soprattutto, agli elettori meno. Da notare che lo scandalo dei fondi ai gruppi in Emilia Romagna potenzialmente sarebbe potuto essere un buon argomento per riconfermare le europee di maggio o le politiche 2013. Probabilmente il richiamo all’onestà e all’integrità morale ha esaurito la sua carica nelle ultime tornate elettorali e così gli emiliano-romagnoli non hanno visto un’alternativa politicamente credibile nella lista di Beppe Grillo.

Anche i dossieraggi tra candidati in rete con tanto di denunce tra attivisti stessi hanno contribuito, al pari degli altri partiti, ad una astensione in massa. Nonostante questo i sostenitori del M5S negano responsabilità su un’affluenza del 37% in un territorio nel quale lavorano ormai da un decennio. Se per il M5S Emilia e Calabria erano di fatto un referendum, il responso è piuttosto eloquente.

Male anche il Nuovo Centro Destra di Alfano e il moderato Giovanardi che con l’UDC hanno sostenuto Alessandro Rondoni. Con il 2,6%, fuori dal Consiglio e questo, complice il risultato in Calabria, decreta la vaporizzazione della costola di Forza Italia. Oltre al de profundis dell’affluenza questo è un dato politico non aggirabile. Un presunto partito come NCD che, seppur non esistendo, costituisce il primo sostenitore di un altro partito (per ora PD, l’embrione della Big Tend americana, il Partito dello Stato-Nazione, il Partito-piglia-tutti) e insieme sostengono un governo dalle larghe intese finalizzato alle riforme. Alfano è comunque Ministro degli Interni in un periodo in cui la politica italiana vira verso la reazione più nera e le politiche antisociali ormai sono pane (o meglio, fame) quotidiano.

Dovrebbe far riflettere quel potere che rappresenta il nulla, ma solo gli interessi di controllo sociale di uno dei governi più liberisti che gli italiani potranno mai ricordare.

Che rimane da dire? Seguiranno anni durissimi, il degrado politico italiano porterà a una guerra civile? Quanto margine c’è ancora?