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Cagliari, “Italiani brava gente”: con Scida si parla dei crimini dell’imperialismo italiano

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Cagliari, “Italiani brava gente”: con Scida si parla dei crimini dell’imperialismo italiano


Domani in programma a Cagliari, a partire dalle ore 17:00, un convegno organizzato dagli indipendentisti di Scida – Giovunus Indipendentistas con il patrocinio dell’ERSU. Il convegno – 
Italiani brava gente: i crimini dell’imperialismo italiano – si terrà nella Sala Maria Carta di Via Trentino.  

L’incontro ha come obiettivo quello di destrutturare alcuni luoghi comuni sul colonialismo italiano mostrando, con il contributo di storici e ricercatori competenti, i crimini compiuti dall’occupazione italiana in Iugoslavia (durante la Seconda Guerra Mondiale) ed in Africa (Libia, Abissinia). Inoltre, ci sarà ampio spazio per ricordare e discutere i più importanti episodi di conflittualità tra la Nazione sarda e lo Stato italiano. Il tentativo sarà quello di leggere questi conflitti attraverso un’interpretazione dell’integrazione della Nazione sarda nella statualità italiana come affermazione di un vero e proprio regime coloniale.

Il convegno intende promuovere un dibattito sulle tematiche inerenti l’idealizzazione del colonialismo italiano nel mondo, percepito differentemente da quello degli omologhi grandi imperialismi europei.

Verranno analizzati anche gli aspetti economici, sociali, culturali e repressivi (simili a quelli di una dominazione coloniale) riguardanti la presenza dello Stato italiano in Sardegna.

Interverranno nei lavori del convegno il Dott. Eric Gobetti, Storico e ricercatore, autore di saggi e pubblicazioni sull’occupazione italiana in Iugoslavia; il Dott. Alessandro Pes, docente e ricercatore Dipartimento di Scienze Sociali e Istituzioni – Università di Cagliari; cordinerà i lavori Andrìa Pili, Segretario di Scida – Giovunus Indipendentistas.

L’indipendentismo sardo di fronte al Donbass (di Scida)

Donbass resistenza
Pubblichiamo la nostra relazione presentata al convegno del 26 giugno- organizzato a Cagliari in collaborazione con il Fronte Indipendentista Unidu- “Lotta antifascista, diritto all’autodeterminazione, tendenza alla guerra – l’esperienza delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk”.

L’Internazionalismo non si basa sul sentimentalismo romantico o cosmopolita ma è una pratica con la sua ragione di essere nella consapevolezza di appartenere ad un medesimo contesto, come il sistema capitalista mondiale o la sudditanza ad una stessa egemonia politica ed economica, quindi la condivisione dello stesso nemico. Prima di prendere una posizione riguardo il Donbass, dunque, è necessario osservare a grandi linee l’area del conflitto ucraino.

Il conflitto di interessi economici tra Unione Europea e Russia, entrambe vogliose di dominare l’economia della terra di frontiera ucraina- il polo europeo è il principale partner commerciale dell’Ucraina, 25.3% export e 40.7% import, mentre la Russia segue con 24.1% e 19.6%- è esploso alla fine del 2013 durante la presidenza di Yanukovic. Il suo rifiuto di siglare un accordo commerciale con l’UE, in novembre, ha scatenato la protesta di Jevromaidan ad opera di filoeuropeisti, presto egemonizzati da gruppi dell’estrema destra (Svoboda e Pravj Sektor) e strumentalizzati da Washington. Gli Stati Uniti, senza avere particolari interessi economici nel Paese, sono intenzionati a contenere la Russia, potenza concorrente nell’area; a questo fine, da vent’anni, foraggia organizzazioni non governative- come la Open Society di Soros- pronte a scattare a convenienza contro un governo sgradito agli USA o amico della Russia. Così è successo nel 2004, nella cosiddetta Rivoluzione Arancione, sempre contro Yanukovic ed in favore dei filoeuropeisti Yushenko e Tymoshenko e così è accaduto nel 2013. Gli Stati Uniti, vista la debolezza politico militare del progetto europeo- in bilico tra la velleità di costruzione di un proprio grande polo capitalista e l’incapacità di sganciarsi dall’ombrello NATO- hanno chiaramente approfittato del conflitto ucraino, spingendo verso un rafforzamento dei legami commerciali euroatlantici (TTIP o il proprio gas naturale liquido contro la dipendenza dal gas russo) e l’indebolimento dell’economia russa (prigioniera della propria dipendenza dal petrolio e colpita dalle sanzioni). Da Jevromajdan è sorto una specie di golpe contro il governo legittimo volto a portare l’Ucraina entro l’orbita euroatlantica. Il nuovo governo di Yatsenjuk, insediato nel febbraio 2014, diede 4 ministeri agli estremisti di destra di Svoboda, siglò il trattato commerciale con l’UE, propose di eliminare lo status del russo come seconda lingua ufficiale dello Stato. Questi tre fattori provocarono il disappunto dei cittadini dell’Est del Paese, in particolare del Donbass.

In questa regione hanno sede un importante settore metallurgico (acciaio, 40% dell’export di tutta l’Ucraina) e le miniere di carbone, liberi da ingerenze esterne, a differenza degli altri settori economici ucraini. Inoltre, questo carattere operaio- presente fin dall’epoca sovietica- unito all’importanza delle proprie risorse, ha fatto sì che i popoli della provincia di Donetsk e di Lugansk sviluppassero una propria identità, una propria volontà autonomista mostrata chiaramente dagli scioperi dei minatori nel 1993 per ottenere uno statuto autonomo. Per questi elementi, uniti alla forte componente russa e russofona (il russo è maggioritario oltre che più usato che in altre parti del paese), il popolo del Donbass è avverso al nuovo governo ed al blocco euroatlantico verso cui si sta dirigendo, in quanto danneggerebbe la propria economia e la propria cultura. In aprile- con l’occupazione dei palazzi governativi di Donetsk, Lugansk e Kharkiv- lo scontro con Kiev diventa aperto e nel maggio seguente- dopo un referendum per l’indipendenza- nascono le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk e quindi la loro resistenza armata contro l’esercito ucraino, i battaglioni neonazisti e gli interessi della NATO.

Merito di questa resistenza popolare è anche di aver fatto emergere le contraddizioni degli oligarchi ucraini, molto legati a questo territorio. I magnati sfruttatori delle risorse del Donbass- dal 1993 al 2003 sono state privatizzate 9200 aziende statali- sono stati sempre molto influenti nello Stato ucraino, controllando le risorse del paese indipendenti dal capitale straniero (commercio del gas, lavorazione del petrolio, industria metallurgica). Dai governi di Kiev- controllati in maniera diretta o indiretta- hanno sempre ottenuto dei privilegi vista la grande importanza della regione per l’economia ucraina; proprio a tutela di questi, gli oligarchi sono passati compatti dalla parte del governo centrale- sebbene una parte di essi abbia inizialmente sostenuto Yanukovic contro l’Europa- e contro i separatisti. Infatti, hanno bisogno dell’unità statale ucraina a sostegno dei propri profitti: lo Stato ucraino è uno strumento degli oligarchi (il presidente Poroshenko, il 7^ uomo più ricco del Paese è l’ultimo esempio). Il chiaro distacco tra oligarchi e militanti indipendentisti del Donbass si è avuto nel maggio 2014, quando Ahmetov – il più ricco d’Ucraina, controllante diverse fabbriche nella regione- ha chiamato i propri operai a fronteggiare i separatisti. Per tutta risposta, l’allora presidente della Repubblica Popolare di Donetsk- Pushilin- ha minacciato la nazionalizzazione delle industrie in seguito al rifiuto degli oligarchi di pagare le tasse alla RPD, accusandoli inoltre di avere derubato i cittadini per anni. Durante gli ultimi venti anni questi uomini facoltosi seppero costruire il proprio consenso nella regione, garantendo uno standard di vita superiore a quello del resto dell’Ucraina (bassa disoccupazione, alto reddito pro capite, salari in crescita); per questo il distacco tra popolo e oligarchia maturato durante lotta assume una importanza storica, oltre ad essere il segno di una lotta a carattere popolare.

Le elezioni ucraine di Ottobre 2014 hanno sancito un governo a maggioranza filoeuropeista e di Destra egemonizzato dal Blocco Poroshenko e dal Fronte del Popolo di Yatseniuk, con il 21% ciascuno dei suffragi. Il conflitto continua ancora oggi, seppure si sia cercato un accordo tra Kiev le aree ribelli su una larga autonomia per la regione ed il rispetto della lingua russa. L’influenza dei neonazisti è ancora ben presente- basti guardare al fatto che un consulente dello Stato Maggiore ucraino era un militante del Pravj Sektor- mentre il carattere reazionario dello Stato ucraino è divenuto evidente dopo la proibizione del Partito Comunista e dell’equiparazione tra nazismo e comunismo.

In Donbass è quindi in atto un movimento d’autodifesa per difendere identità, cultura, economia, lingua. Insomma, la lotta per l’autodeterminazione del popolo del Donbass è pienamente legittima in quanto antifascista e contro uno Stato oppressore. In più è anche una battaglia contro l’egemonia statunitense ed il polo capitalista europeo. Ciò significa che questa resistenza è una lotta fraterna a quella del movimento di liberazione nazionale sardo. Infatti, la Sardegna si ritrova a pagare- tramite l’occupazione militare, basti pensare al solo Poligono di Quirra, il più grande d’Europa- sulla propria pelle l’Alleanza Atlantica a tutela degli interessi dell’imperialismo occidentale e non può che esprimere la propria avversione verso un progetto europeista edificato su basi non democratiche ed in favore della creazione di un grande spazio entro cui la nostra isola, pure indipendente, sarebbe integrata solo in condizioni di sudditanza e di cui- come organizzazione giovanile e studentesca indipendentista- abbiamo più volte sottolineato i mali in ambito universitario e nelle politiche del lavoro giovanile.

L’indipendentismo sardo deve dirsi attivamente solidale con le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk e guardare- con disincanto e realismo- favorevolmente a chiunque ponga in crisi l’egemonia entro cui la Sardegna è posta come periferia, osservando come- nella storia- il declino di grandi potenze imperiali e imperialiste abbia favorito i movimenti di emancipazione.

http://scida.altervista.org/lindipendentismo-sardo-di-fronte-al-donbass/#sthash.H0xg4iUd.dpuf

A Foras! Quarta parte: lotta contro l’occupazione militare e lotta di liberazione nazionale (di Scida).

liberazione nazionale http://scida.altervista.org/aforas-cap-iv-lotta-contro-loccupazione-militare-e-lotta-di-liberazione-nazionale/

Le organizzazioni indipendentiste coerenti, il movimento studentesco (nella sua migliore espressione del Comitato Studentesco contro l’Occupazione Militare), le organizzazioni antagoniste ed i movimenti pacifisti e antimilitaristi della società civile sono gli unici che hanno preso una posizione netta contro la riqualificazione militarista di Quirra – condotta dal PD e da Pigliaru – e dunque gli unici che possono condurre una lotta coerente – fino alla vittoria – contro i poligoni militari, contro ogni esercitazione bellica, per la bonifica ed il riuso produttivo di tutti i siti militari dismessi?

Non si tratta di romantiche rivendicazioni di purezza ideologica o di rettitudine morale; anzi, si tratta di una questione prettamente materiale: tutti questi movimenti (e tutti gli individui che in essi militano) non hanno dei privilegi da difendere entro lo stato di cose presente.

Chi sostiene la Giunta Pigliaru non può essere considerato contrario all’occupazione militare. Ne consegue che questo Consiglio Regionale è un nemico della Nazione sarda ed il movimento antimilitarista dovrebbe chiederne le dimissioni e quindi nuove elezioni al fine di portare se stesso al governo della nostra isola. Fare affidamento sulla Giunta del Partito Democratico, sugli unionisti e sui collaborazionisti suoi alleati significherebbe solo giungere ad una risoluzione in senso reazionario del conflitto tra la nostra Nazione e lo Stato italiano, in favore di quest’ultimo e contro il nostro Popolo. La “Piattaforma Pigliaru” – che prevede come obiettivo massimo la chiusura di circa 9000 ettari di servitù su un totale di 35000, rifiutandosi di chiudere i 13000 del PISQ) rappresenterebbe un tradimento di tutti coloro (militanti dei partiti, simpatizzanti, semplici famiglie ed individui sensibilizzati alla questione delle servitù militari) che hanno partecipato alle mobilitazioni popolari e di tutti quei ragazzi che hanno rischiato seri problemi con la Giustizia con l’occupazione della Facoltà di Lettere e degli stessi poligoni di Capo Frasca e Teulada, al fine di impedire ogni tentativo di strumentalizzazione da parte delle forze di sistema; infine la delusione per la mancata soluzione, potrebbe provocare l’abbandono dalla lotta politica di diverse individualità sensibili, una grave perdita di autostima – e quindi di coscienza nazionale – da parte del nostro Popolo, che penserebbe di non poter ottenere nulla attraverso la propria azione autonoma dai centri di potere da sempre suoi nemici.

Il 17 novembre scorso, a Okinawa, si sono svolte le elezioni per il nuovo governatore. Queste sono state trasformate in una sorta di referendum sulla presenza militare statunitense nell’isola, portando alla vittoria il candidato più intransigente contro l’occupazione: Takeshi Onaga, il quale si è opposto con tenacia al tentativo di risolvere il problema con la ricollocazione della marina a stelle strisce in un’altra parte del territorio. Qualcosa di simile potrebbe avvenire in Sardegna, tenendo conto della crescita della sensibilità intorno al tema delle servitù, quanto alla crescita di consapevolezza di sé nel nostro popolo ed il suo rifiuto dell’attuale classe politica al potere (48% di astensione alle ultime Regionali).

L’indipendentismo è l’unico orientamento politico capace di collegare la questione delle servitù militari con la questione sociale e la questione studentesca entro un progetto di emancipazione reale del nostro popolo. Rappresenta, cioè, l’unica forza capace di condurre in maniera coerente e costante la lotta contro l’occupazione militare senza tendere al compromesso, senza scivolare nello spontaneismo ma facendone una questione nazionale e dunque capace di attirare a sé la maggioranza dei sardi, oppressi dalla Dipendenza coloniale e cioè dallo stesso Stato e dagli stessi interessi imperialistici cui si deve la presenza militare sulla nostra isola.

Ad esempio, nell’ambito studentesco, la mancata potestà legislativa in ambito d’istruzione trasformerà – con la riforma della scuola di Renzi e Giannini – la Vitrociset da principale collaboratore dell’IPSIA di Perdasdefogu a suo azionista di maggioranza. Una piattaforma nazionale, anticolonialista e antimilitarista al governo della Regione lottando per una Scuola ed Università sarda porrebbe fine alla ignominiosa compromissione dei nostri atenei e scongiurerebbe la pericolosa penetrazione di capitale privato nei nostri istituti scolastici.

Non è più tempo di aspettare. Ogni conflitto può essere risolto in senso reazionario o in senso rivoluzionario. Durante la Sarda Rivoluzione, il timore per il radicalismo condusse la fazione più reazionaria del movimento riformatore ad accettare la soluzione del problema feudale in senso favorevole alla dominazione piemontese, contro le masse sarde: introduzione del capitalismo e Fusione Perfetta. Oggi come tre secoli fa, i collaborazionisti, i reazionari, i conservatori, i privilegiati hanno come nemico principale il popolo sardo in rivolta e lo Stato colonizzatore ed occupante come alleato. Radicalizzare il conflitto sulle servitù militari è l’unico modo per giungere ad una soluzione favorevole alla nazione sarda. Riprendiamoci la nostra terra! Rifiuto di ogni compromesso! Il vero irresponsabile è chi invoca soluzioni parziali o invita alla collaborazione con la classe dirigente coloniale!

Scida, Giovunus Indipendentistashttp://scida.altervista.org/