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Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. II parte (di Andrìa Pili)

occupazione militare

 

Andrìa Pili per http://contropiano.org/

Mobilitazione popolare e livello istituzionale

La costante di questo anno di lotta contro l’occupazione militare è stata l’impermeabilità tra il movimento popolare e le istituzioni. Nel primo possiamo distinguere due componenti di fatto complementari: i movimenti indipendentisti e gruppi antimilitaristi della società civile che hanno promosso la manifestazione di Capo Frasca il 13 settembre 2014; una frangia caratterizzata dal richiamo all’azione diretta e all’antimilitarismo puro e semplice, ora espressa dalla “Rete No Basi né qui né altrove”. Ciò che accomuna le due è la volontà di promuovere una mobilitazione popolare contro le servitù militari intorno a tre punti radicali, ritenuti imprescindibili: blocco immediato di tutte le esercitazioni militari;

chiusura totale di ogni base militare e poligono presente in Sardegna; bonifica dei territori e riconversione ad uso civile.

Tale radicalismo, da entrambe, è stato mantenuto sino ad oggi per tutte le mobilitazioni e azioni promosse: manifestazione studentesca ed occupazione della facoltà di lettere di Cagliari in novembre; corteo intorno al poligono di Teulada e manifestazione a Cagliari di dicembre; manifestazione contro la Starex a Decimomannu nel giugno scorso; campeggio antimilitarista e recente dimostrazione a Cagliari contro la Trident Juncture.

L’istituzione della Regione Autonoma, con la sua Giunta ed il suo Consiglio, ed i parlamentari sardi a Roma sono stati del tutto incapaci di portare nelle sedi più importanti le istanze di questo movimento. Fin da subito sono parse inadeguate alla soluzione della questione militare e da sempre hanno ricercato finte soluzioni compromissorie, cercando di annacquare il conflitto. Per essi è stato impossibile strumentalizzare quanto avveniva dal basso. Non hanno potuto farlo neanche quando- al termine della manifestazione di Cagliari del dicembre scorso- dei rappresentanti del movimento hanno incontrato Pigliaru per chiedere che Giunta e Consiglio si pronunciassero nettamente per l’indisponibilità della Sardegna alle esercitazioni militari. I promotori hanno parlato significativamente di “ultimatum” alla classe politica regionale: se non fossero venuti incontro al movimento, questo avrebbe dovuto considerarli chiaramente come ostili.

Il Presidente della Regione Francesco Pigliaru ha assunto una sola posizione chiara: la difesa del Poligono di Quirra. Porta questa coerentemente avanti da quando svolgeva l’incarico di prorettore dell’Università di Cagliari- con l’adesione dell’ateneo al progetto del Distretto Aerospaziale della Sardegna, entro cui partecipano diverse società implicate nelle attività belliche- sino al documento di programmazione regionale del 22 luglio 2014, in cui i poligoni militari sono appunto individuati come aree entro cui tale distretto possa realizzarsi. Per il resto, solo letterine di protesta ed idee molto confuse e variate nel tempo: dalla richiesta di chiusura di 1/3 delle servitù, alla chiusura della sola Capo Frasca, alla chiusura di Capo Frasca a Teulada sino ad un accordo insignificante con il sottosegretario alla difesa e all’ottenimento di misure anti-incendio ed infine, la posizione più recente, la richiesta di avviare “una progressiva diminuzione delle aree soggette a vincoli, la graduale dismissione dei poligoni di Capo Frasca e Teulada e la riconversione del poligono interforze di Quirra”. È bene ricordarci del DASS quando si parla di “riconversione” del Poligono; Pigliaru, a dicembre dello scorso anno, parlò esplicitamente di “riconversione in chiave di ricerca duale”, cioè civile e militare.

Per quanto riguarda il Consiglio Regionale, basti pensare che il partito da cui ci si dovrebbe aspettare una maggiore intransigenza- il Partito dei Sardi, che si dice “indipendentista”- ha un presidente che ha recentemente definito importante l’Alleanza Atlantica ed un segretario che, una settimana prima della dimostrazione di Capo Frasca, ha scritto un comunicato ufficiale di sostegno a Pigliaru e di distacco da chi puntava il dito contro di lui. Inoltre, è importante notare che la formazione politica egemone nella maggioranza consiliare è il Partito Democratico. Questo, dal 2008, ha cercato una risoluzione reazionaria della questione militare puntando alla chiusura di Capo Frasca e Teulada ed alla riqualificazione in senso militarista di Quirra (entro cui va inserito il progetto del DASS). Tale posizione è stata, non a caso, definita “Piattaforma Pigliaru” da Mariella Cao, storica militante dell’antimilitarismo sardo, per mettere in guardia tutto il movimento dalle finte soluzioni. Cinque consiglieri del PD (Comandini, Deriu, Cozzolino, Sabatini, Lotto) hanno proposto una mozione in favore del rilancio delle attività dello stesso Poligono Interforze, definito “realtà d’eccellenza in campo europeo”. Non bisogna dimenticare che- a differenza di quanto avviene a livello statale- partiti che dovrebbero essere più ostili alla presenza militare come Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione Comunista sono alleati del Partito Democratico. Vista la posizione netta del PD in favore dell’occupazione militare, è evidente come i movimenti politici con esso compromessi siano oggettivamente inadeguati a condurre una lotta coerente per la smilitarizzazione dell’isola, al di là delle loro frasi di circostanza.

Nel Parlamento Italiano, i sardi oscillano tra mille contraddizioni. L’anno scorso, deputati e senatori sardi del PD hanno visitato il PISQ di Quirra per dare ad esso sostegno (Ignazio Angioni, Siro Marrocu, Romina Mura, Emanuele Cani); inoltre, i parlamentari Emanuele Cani, Caterina Pes, Giovanna Sanna, Romina Mura, Giampiero Scanu, Siro Marrocu e Francesco Sanna hanno votato in favore dell’equiparazione delle soglie di inquinamento entro i poligoni militari a quelle delle zone industriali (molto più alte). Non sono mancate le contraddizioni entro parlamentari dell’opposizione, malgrado la loro ostentata sensibilità al problema delle servitù: Michele Piras (SEL) e Roberto Cotti (M5S) hanno presentato l’approvazione della legge per l’innalzamento dei limiti d’altezza per l’arruolamento nell’Esercito Italiano come la fine di una discriminazione per i sardi- che luogo comune, quando non vero e proprio complesso di inferiorità del colonizzato, vuole congenitamente bassi, mentre la loro altezza media è già superiore ai suddetti limiti- Piras parlò addirittura di restituzione di “una opportunità lavorativa e di crescita professionale” per i giovani dell’isola e di “prova di una grande sensibilità sociale e di autonomia dagli Stati Maggiori”. La contraddizione sta nell’accettare, di fatto, come legittima la presenza dell’Esercito Italiano nell’isola. Chi non la considera tale di certo non esprimerebbe giubilo nell’ampliare la possibilità che i sardi possano arruolarsi. Ovvio come ciò vanifichi l’espressione “occupazione militare”- sempre rimarcata dal livello popolare della lotta- e faciliti il raggiungimento di una finta soluzione, presentata come la massima raggiungibile anziché come il massimo di ciò che certi soggetti possono proporre dato il proprio livello di compromissione con lo stato di cose presenti.

Tale contraddizione ci serve ad aprire una grande porta sul problema principale di tutti quelli che potremmo chiamare i “falsi amici” della lotta contro le servitù militari: l’incomprensione della questione nazionale sarda.

Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. I parte (di Andrìa Pili)

occupazione Sardegna
Andrìa Pili per http://contropiano.org/

Nel mese d’ottobre la Sardegna sarà coinvolta nella Trident Juncture 2015, l’operazione NATO volta a testare le unità militari atlantiste nella prospettiva di nuovi conflitti. Queste esercitazioni, nell’isola al centro del Mediterraneo occidentale, sono l’ennesimo sopruso inflitto ad un popolo che soffre da circa mezzo secolo la presenza di tre poligoni (tra cui il più grande d’Europa, 13400 ha, Quirra, ed il più grande della Repubblica a Teulada, 7200 ha) oltre che di oltre i 3/5 delle servitù militari italiane. Oltre a questo, sono anche un sonoro schiaffo ad una comunità che da oltre un anno ha assunto una consapevolezza maggiore del problema militarista. Sensibilità e rabbia mai avute in precedenza il cui detonatore fu l’incendio di 32 ettari di macchia entro il poligono di Capo Frasca ed il cui campo propagatore fu la crisi economica, con conseguente progressiva sfiducia verso i partiti tradizionali, aggravante una condizione sociale difficile derivante da una storica oppressione di tipo coloniale.

La Sardegna può essere definita una nazionalità storica, la cui oppressione politica, sociale ed economica è sempre andata di pari passo con la sua riduzione ad oggetto per le esigenze militari della potenza imperiale o imperialistica di turno che ha visto l’isola come un grande avamposto nel Mediterraneo. Solo sotto lo Stato italiano- probabilmente perché tale dominazione è coincisa con l’affermazione passiva della modernizzazione e della società di massa- questo elemento costante nei secoli ha assunto un carattere ideologico molto forte, il quale è divenuto centrale nella mentalità del sardo oppresso, colonizzato. Già alle scuole elementari i sardi apprendono del “tributo di sangue” versato dalla Brigata Sassari durante la Grande Guerra, come da esso discenderebbe un legame indissolubile con l’Italia così come un elemento di unità per gli stessi sardi- che leggenda vuole pocos, locos y mal unidos- grazie al quale si sarebbe creato il Partito Sardo d’Azione, l’autonomismo, rendendo quindi possibile una ridefinizione del rapporto con lo Stato centrale- nella sua fase repubblicana- ove la “specialità regionale” è posta in maniera armonica con l’appartenenza alla “grande nazione italiana”, lontano da pericolose e immorali spinte “separatiste”. Entro questa identità subalterna, il sardo colonizzato non solo è orgoglioso del “suo” reggimento etnico entro l’Esercito Italiano ma ritiene di poter convivere con i siti militari presenti nella sua terra; anzi, crede di non poterne fare a meno e che i poligoni siano l’unica opportunità di sviluppo economico e di occupazione per i territori che li ospitano. Ad esempio, il sottosegretario alla Difesa- Domenico Rossi- ha parlato della forza del grande affetto dei sardi per la Brigata Tatarina in contrapposizione all’antimilitarismo, che sarebbe perciò minoritario

Tale costruzione ideologica si impone per varie rimozioni. Nelle scuole sarde, infatti, la storia della Sardegna non esiste. Lo scolaro sardo è convinto di discendere dagli antichi Romani, ignora la resistenza antiromana nell’isola, e conosce i principali avvenimenti storici basandosi su quanto avvenuto nella penisola italica. Non gli è dato modo di conoscere la civiltà nuragica, l’epoca dei Giudicati, la fallita rivoluzione sarda alla fine del XVIII secolo. Il sardo- fin dalla nascita- è indotto ad un processo d’identificazione con l’Italia e la storia della sua terra è- al massimo- la storia di chi l’ha dominata. È, insomma, un alienato. Perciò, non conosce i duri atti di repressione condotti dall’Esercito Italiano contro il suo popolo, dunque non sente insofferenza quando si celebra la fondazione delle Forze Armate o dell’Arma dei Carabinieri; è del tutto ignorante riguardo le vicende della Divisione Sassari ed i crimini da essa commessi in Iugoslavia durante la seconda guerra mondiale e quindi guarda alla Brigata come ad un “orgoglio sardo”; ignora gli espropri delle terre condotti dal Ministero della Difesa per la realizzazione dei poligoni, come quanto avveniva prima dell’interdizione delle acque ad essi connessi, non è quindi capace di concepire un utilizzo realmente economico per i terreni che l’Esercito ha sottratto alle comunità dell’isola.

Entro questa realtà, le mobilitazioni contro l’occupazione militare susseguitesi nell’ultimo anno acquisiscono una importanza storica fondamentale, potenzialmente gravida di conseguenze positive per il futuro della Sardegna come la progressiva trasformazione della mentalità del sardo oppresso.