Sardegna: lotta contro l’occupazione militare. III parte (di Andrìa Pili)

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L’ex capo di stato maggiore della Difesa sino a febbraio 2015, Luigi Binelli Mantelli (foto), circa le servitù militari in Sardegna e la crescente insofferenza dei sardi giudicò la definizione “servitù” come “un’espressione corretta, ma oggi non più adeguata alle esigenze della comunicazione”

Andrìa Pili per http://contropiano.org/

La Sardegna è sola

Le recenti dichiarazioni del Generale Errico in commissione difesa, sommate a quelle del Ministro Pinotti, rivelano tanto l’indisponibilità delle autorità politiche e militari italiane a risolvere la questione, quanto l’incapacità dei sardi nelle istituzioni di difendere gli interessi del popolo sardo di fronte al governo, di far emergere chiaramente a Roma l’esistenza di uno scontro. Tanto l’Esercito quanto il governo ritengono i poligoni sardi indispensabili perché si possa adempiere alle esigenze di difesa nazionale, cioè permettere un addestramento soddisfacente per le truppe impegnate nelle missioni all’estero.

Credo sarebbe necessario fare due belle domande ad ogni parlamentare sardo della suddetta commissione: “Lei crede che esistano delle esigenze di Difesa nazionale?”; “Lei pensa che l’Esercito italiano necessiti di spazi adeguati per il proprio addestramento nelle missioni all’estero?”. Successivamente mostrerei le loro contraddizioni. Infatti, non credo che riuscirebbero a dare delle risposte coerenti nel senso di una battaglia contro l’occupazione militare. È per questo che il livello istituzionale, di fatto, attualmente non esiste e che i partiti di sistema (e credo pure i populisti di destra grillini) non possono risolvere il problema. Al di là della propria sensibilità personale o impegno sul tema ci sono dei limiti intrinseci oggettivi da evidenziare: innanzitutto, l’Italia è il centro dell’azione politica dei partiti entro cui i parlamentari sardi sono inseriti, così come dipendono dal centro italiano gli stessi Giunta e Consiglio regionale. A parte ciò, non è certo un dettaglio che l’esecutivo italiano e quello sardo siano entrambi controllati dal Partito Democratico; è evidente come da questo discenda che la filiale regionale non possa mettersi contro il potere centrale così come- data la connivenza- le uniche possibili “soluzioni” al problema del militarismo in Sardegna che l’attuale livello istituzionale può fornire non possano che essere di comodo per il potere politico e insignificante per gli interessi reali dei sardi.

Ma proviamo a notare le conseguenze logiche di quanto affermano le massime autorità politiche e militari italiane: “Il numero dei poligoni è di mera sufficienza. Siamo ad un livello tale per cui non possiamo scendere al di sotto di quello che abbiamo” (Gen.Errico); “Le attività addestrative sono indispensabili a conseguire quelle capacità operative che costituiscono il requisito imprescindibile di uno strumento militare moderno ed efficace, in grado di integrarsi rapidamente e di interoperare efficacemente in contesti multinazionali e il cui mandato di difesa della nazione, dei suoi confini e della collettività, discende direttamente dal dettato costituzionale (…) Per quanto concerne, in particolare, il poligono di capo Teulada, la sua disponibilità risulta essenziale per l’efficienza e la permanenza nell’isola della stessa brigata “Sassari” dell’Esercito italiano” (Pinotti, ministro della Difesa); La chiusura totale dei poligoni mi sembra un’ipotesi improbabile (…) le Forze Armate avranno bisogno di aree addestrative in cui svolgere attività a fuoco”; “mitigazione in senso generale delle servitù militari (…) Inizieremo cioè a vedere poligono per poligono qual è la situazione” (Rossi, sottosegretario al ministero della Difesa).

In sintesi: ragioni supreme di difesa nazionale impediscono la chiusura dei poligoni in Sardegna; quest’ultima implicherebbe l’apertura di poligoni di analoghe dimensioni in altre aree della Repubblica Italiana. Appare evidente come- in assenza di un movimento italiano che possa fare una rivoluzione- nessun partito fondato sull’Italia- con direzione ed interessi fondati sulla penisola- abbia interesse a smilitarizzare la Sardegna per alleviare il fardello dei “poveri sardi” che tanto hanno contribuito, per circa mezzo secolo, alla “sacra causa della Nazione Italiana”. Quale sarebbe, infatti, la convenienza di un partito italianista, centralista, nel porsi in contrasto con le Forze Armate e di assumersi la responsabilità di aprire dei poligoni in una qualsiasi altra regione, tenendo conto sia della gestione di problemi di ordine pubblico quanto delle negative conseguenze elettorali collegate a ciò? Per avere una idea della tattica dei partiti che sono stati più a sinistra nell’arco parlamentare recente, basti ricordarci della Rifondazione Comunista bertinottiana- padre di SEL- che votò il rifinanziamento delle missioni di “pace” per salvare il governo Prodi, cioè le proprie poltrone.

La Sardegna è sola. Può salvarsi solo da sé. Ma questa non è una tragedia, bensì un’opportunità. Il problema dell’occupazione militare è tanto grave che può essere risolto solo attraverso soluzioni radicali, del tutto fuori dall’ordinaria azione del livello istituzionale esistente: l’emersione della questione nazionale nella mobilitazione popolare e uno sbocco politico sardocentrico. È necessario un progetto politico di rottura, alternativo ai partiti che hanno storicamente gestito le relazioni tra l’isola e lo Stato centrale per tenere la prima in condizioni di sudditanza. È proprio la situazione di dipendenza di questa la ragione per cui in essa è stata esternalizzata la gran parte delle servitù militari italiane. È dunque necessario che la questione nazionale sarda diventi centrale nella lotta antimilitarista, oltre l’antimilitarismo tout court finalizzato a se stesso. La questione sarda non è secondaria o marginale ma prioritaria.

Le esigenze di difesa nazionale non riguardano i sardi in nessun caso: innanzitutto, si tratta di esigenze del capitale italiano (tra cui l’ENI, che nell’isola ha portato inquinamento e sottosviluppo e sta facendo affari in Afghanistan) e dell’imperialismo quindi non dei sardi; la Sardegna è una comunità distinta e le esigenze dello Stato italiano e della fittizia nazione monolite cui esso si rifà non sono comunque le proprie. L’Italia può essere un bersaglio per i suoi interventi imperialisti. La Sardegna diventa un bersaglio indiretto, di riflesso, a causa della notevole presenza militare italiana, la quale dunque è tutto fuorché una protezione, come vorrebbe certa propaganda di Destra.

Lo Stato si è fino ad ora mostrato del tutto insensibile alla questione delle nazionalità interne (vedi la recente riforma titolo V) così come è da sempre consapevole di poter risolvere tutto contro gli interessi sardi, mediante la solita mediazione con l’attuale classe politica regionale. Quest’ultima sarebbe ben contenta di mascherare delle modifiche irrisorie come dei propri grandi successi politici. Una volta che questa mediazione verrà manomessa, che nuovi soggetti realmente interessati a cambiare la situazione controlleranno le relazioni con lo Stato centrale sarà possibile cominciare un discorso differente e giungere alla soluzione migliore.

Un progetto politico sardocentrico- il cui obiettivo sia la ridefinizione generale del rapporto tra lo Stato centrale e la Sardegna, entro cui inserire l’indisponibilità a che l’isola si faccia carico dei tre poligoni di Capo Frasca, Teulada e Quirra cioè delle esigenze di Difesa nazionale italiana- si impone come necessario e capace di aggregare quanto più sardi possibile connettendo la questione militare alla generale situazione di dipendenza. Esso può essere l’aggregante per un vero coinvolgimento di massa, cosa che non può nascere da azioni unicamente improntate all’azione diretta, necessariamente condotte da un numero limitato di individui. Il grande successo della mobilitazione del 13 settembre 2014- con 10000 sardi giunti a Capo Frasca contro l’occupazione militare, in nome dei tre punti radicali del comitato promotore- il fallimento della mobilitazione in favore delle servitù militari chiamata dal sindaco di Decimoputzu e dall’estrema destra, possono dimostrare quanto sia possibile creare un grande coinvolgimento di popolo, non strumentalizzabile dai partiti di sistema- che in Sardegna sono i “partiti italiani”- non disposto a finte soluzioni compromissorie, che vede la presenza militare italiana come un’insopportabile atto di sottomissione, funzionale ad interessi esterni. Il problema del militarismo in Sardegna, dunque, può essere la base da cui costruire il suddetto progetto politico. Il problema militare rende la questione nazionale più evidente rispetto ad altri problemi che affliggono l’isola, proprio perché irrisolvibile- anche nell’ipotesi di un “buon compromesso”- entro il rapporto in cui essa è inserita.

Buoni esempi per la Sardegna arrivano da altre due isole: Vieques a Puerto Rico e Okinawa sotto il Giappone. La prima è un esempio di intransigenza e di organizzazione di una lotta popolare- condotta dal basso da indipendentisti e antimilitaristi, in cui il nazionalismo portoricano ha svolto un ruolo importante nella aggregazione- capace di occupare la base della US Navy continuativamente per un anno e un mese e di spingere la classe politica locale ad agire in modo efficace, infine di essere vittoriosa contro gli Stati Uniti al culmine della propria egemonia politica ed economica mondiale. La seconda isola è interessante nel senso della progettualità politica: le ultime due elezioni politiche sono state dominate dal tema dell’occupazione militare e nel 2014 a vincere è stato un candidato indipendente (Takeshi Onaga) sostenuto da movimenti politici non compromessi, tra cui il Partito Comunista Giapponese, in reazione al precedente governatore- membro del Partito Liberaldemocratico di Shinzo Abe- che non aveva saputo mantenere le proprie promesse sull’argomento.

Due esempi di mobilitazione, organizzazione, progettualità politica, cui il movimento sardo contro l’occupazione militare dovrebbe guardare, così come- in futuro- oltre l’isola ci sarà chi guarderà alla lotta sarda. Infatti, non si tratta di mero antimilitarismo e meno che mai di “pacifismo” ma di una lotta contro l’oppressione coloniale e contro l’imperialismo.

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