Non solo Hamas, c’è anche il Capitalismo. C’è anche il FPLP

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Non esiste unicamente Hamas in Palestina. Nonostante la Rai la citi ossessivamente e spesso a sproposito, è opportuno metabolizzare una volta per tutte come la questione socio-politica sia nettamente più complessa. Svariate organizzazioni lanciano razzi e resistono militarmente in Palestina, come avvenuto in altri luoghi e in altri tempi. Dunque, bando alla retorica.Bisognerebbe piuttosto discutere circa il pantano e le gravi contraddizioni, politiche e di conseguenza sociali, nelle quali è sprofondato l’OLP di Abu Mazen. Ormai le si provano tutte tranne che perseguire l’unità del Popolo palestinese, pregiudicando drammaticamente il riscatto e la prosperità della Palestina, l’autodeterminazione del suo popolo, l’unificazione e il diritto al ritorno.

Il tutto non può essere analizzato senza una prospettiva “di classe”, perché dalla colonizzazione e lo sfruttamento economico il Sionismo trae prima di tutto un profitto. Questo non va mai dimenticato. Il profitto può essere in parte condiviso se la spartizione, o meglio la concessione, è funzionale alla salvaguardia della maggior parte della torta. Il discorso è molto più economico che religioso, infatti il generico “islamismo” è storicamente funzionale al sovrastrutturare le rivendicazioni popolari, laiche e socialiste, per inibirne il potenziale rivoluzionario, salvo poi additarlo come terrorismo quando l’opportunità politica ed economica lo indica come congeniale.

Il caso del sunnita e saudita Osama Bin Laden è emblematico. Finanziato e organizzato massicciamente negli anni ’80 per la presunta libertà del popolo afghano dalla “Minaccia Rossa”, è poi divenuto il nemico numero uno in giro di pochi anni, ottenendo così il pretesto per radere al suolo praticamente due paesi dopo averli armati (doppio profitto), ricostruirli (profitto), amministrare le sue risorse naturali (profitto) e stabilire tutte le basi militari che si ritengono opportune (profitto).

I profitti sono profitti, e sono elevati. Disarticolare la società palestinese è piuttosto profittevole, soprattutto in ottica di lungo periodo che è quella di maggior interesse nelle logiche capitaliste, per lo meno nel Capitalismo “classico”. La tranquillità, il controllo capillare della popolazione, diretto o indiretto che sia, comporta un basso livello di rischio negli affari. Nel Capitalismo tradizionale (agricoltura, edilizia, infrastrutture, servizi reali, etc) questa sicurezza è cruciale.

Ci si ritrova perciò nel paradosso di osservare l’usurpazione di risorse naturali, come per l’estrattivo, oppure vedere i palestinesi che acquistano le stesse acque sottratte loro con il benestare delle organizzazioni che il popolo dovrebbero rappresentare e difendere. Mediare incessantemente tra il popolo e il suo oppressore indica spesso e volentieri il carattere parassitario e ipocrita di quella ostentata e infinita mediazione. Che dire, poi, della manodopera palestinese a basso costo che alimenta la colonizzazione stessa e, di conseguenza, la crescita di una piccola borghesia in seno al Popolo palestinese che Israele può chiaramente utilizzare al fine di spostare gli equilibri politici a proprio favore.

Persistono enormi interessi economici dietro la disgregazione territoriale palestinese. Il fulcro è il continuo armamento e il richiamo alla sicurezza di Israele. In questo caso due sono gli esempi emblematici che meritano discorsi separati. a) predisporre un sistema di difesa da 80.000 dollari a razzo intercettato il quale ha un valore artigianale che non supera i 300 dollari; b) la continua proliferazione nucleare sionista: Israele da questo punto di vista si comporta al pari di Corea del Nord e Iran ma di fronte alla “comunità internazionale” mantiene sempre ottime ragioni per poterlo fare.

In conclusione, il modo migliore per sterilizzare i movimenti di liberazione portando fratelli e sorelle a spararsi tra di loro è acquistare le parti non allineate. Parlare di Palestina e Sionismo senza considerare meccanismi puramente capitalistici è, semplicemente, una non-analisi. Parlare di Palestina invocando unicamente mediazioni e accordi, tra l’altro in continuo ribasso, rischia di concretizzare un suicidio politico nonché, ben più grave, un’usurpazione dell’autodeterminazione popolare.