Cagliari, Relazione Scida-GI per “Italiani brava gente: i crimini dell’imperialismo italiano”

15338839_1211177885641642_3823951616463139296_n

Cagliari, Relazione Scida-GI per “Italiani brava gente: i crimini dell’imperialismo italiano”

Vi proponiamo la relazione di Scida presentata al convegno “Italiani brava gente: i crimini dell’imperialismo italiano” che si è svolto il 7 Dicembre 2016 nell’Ateneo Cagliaritano;  l’iniziativa era volta a decostruire alcuni luoghi comuni sul colonialismo italiano, con il contributo di storici e ricercatori quali il Dott. Eric Gobetti e il Dott. Alessandro Pes, mostrando i crimini compiuti dall’occupazione italiana in Iugoslavia (durante la Seconda Guerra Mondiale) ed in Africa (Libia, Abissinia), oltre a ricordare i più importanti episodi di conflittualità tra la Nazione sarda e lo Stato italiano, provando a leggerli attraverso un’interpretazione dell’integrazione della prima nel secondo come l’affermazione di un regime coloniale.

Italianità e colonialità in Sardegna

L’imperialismo italiano non è stato una parentesi nella storia d’Italia, da relegare a un periodo autoritario confinato nel passato, in particolare in quello fascista; il suo fondamento sta nella struttura dualistica dello Stato italiano stesso. L’Italia è uno Stato unitario fondato sullo sfruttamento del «Sud» da parte del Nord, il cui sviluppo industriale non sarebbe stato possibile senza sacrificare Meridione ed Isole; prima dell’Impero in Africa, lo Stato – espressione degli interessi del capitale settentrionale – ha prodotto al suo interno dei rapporti di tipo coloniale, su tre livelli: economico, politico, culturale. Lo storico dell’imperialismo italiano Angelo Del Boca, che ha contribuito enormemente a svelarne i crimini e a smontare il mito degli Italiani Brava Gente, ha posto la repressione del brigantaggio (1861-70) come un prologo delle violenze che saranno compiute all’esterno. Oltre Del Boca, recentemente, la storica Silvana Patriarca ha mostrato come questo dualismo strutturale abbia marcato il discorso nazionalista italiano dominante; questo sarebbe situato entro una tensione tra una pretesa grandezza italiana insita nel suo presunto glorioso passato (Roma, Rinascimento, capitalismo finanziario genovese…) e un popolo degenere, indolente, ozioso, privo di senso civico e coscienza nazionale. Proprio il meridionale, spesso, è il modello dell’italiano degenere a causa della costruita contrapposizione tra un Nord civile «europeo» e un Sud arretrato «africano»; sono numerose le dichiarazioni di politici e intellettuali pre e post unitari a sostegno di questi stereotipi.

«Che paesi sono mai questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile» (da una lettera di Luigi Carlo Farini a Cavour, cit. in Salvadori, 1976).

«Imporre l’unità alla parte più corrotta e debole dell’Italia (…) la forza morale e se non basta quella fisica» (Cavour cit. in Conelli, 2014)

«I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani  vecchi di prima, colle dappoccaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio. Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri (…) pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani» (Massimo d’Azeglio, «I miei ricordi», cit. in Del Boca, 2008)

«La razza italiana non è ancora sanata da questa fiacchezza morale» (Francesco De Sanctis, «Saggi critici», cit. in Del Boca, 2008)

Ovviamente, questo popolo indegno va costantemente rieducato dallo Stato con ogni mezzo; quindi vediamo come questa narrazione – cui verrà data una patina di scientificità dall’antropologia lombrosiana – sia stata funzionale all’uso delle «maniere forti», di una violenza coloniale al Sud e del suo sfruttamento, come se ciò fosse naturalmente giustificato dalla superiore civiltà dello Stato unitario strumento del Nord.

Inoltre, possiamo capire come il colonialismo italiano in Africa possa collegarsi a questa costruzione dell’italianità: l’imperialismo era non solo un modo per educare gli italiani – renderli virili e disciplinati attraverso la guerra – ma anche un modo per arginare le tensioni interne (ad esempio, promettendo terre per i contadini in Africa, anziché proporre una riforma agraria che redistribuisca le terre colpendo gli interessi degli agrari nel Meridione). Dunque, anche in questo caso, come aveva scritto anche Lenin, l’imperialismo è anche un tentativo di creare una comunione di interessi tra capitale e lavoro contro il pericolo di una rivoluzione socialista.

L’italianità in Sardegna si è espressa nella dicotomia tipicamente coloniale tra civiltà (Italia) e barbarie (Sardegna); questa è stata declinata in vario modo, per cui l’italianità rappresenterebbe il progresso, la modernità, la mondializzazione, l’apertura mentre la sardità rappresenterebbe l’arretratezza, la chiusura, l’isolamento, la staticità. I sardi sono inseriti entro questa tensione, spinti a italianizzarsi nella speranza di poter essere socialmente legittimati, laddove la sardità è connessa ad una posizione subalterna. La questione linguistica – nel rapporto diglossico tra la lingua dominante (italiano) e la lingua dominata (sardo) – mostra questa dialettica nella maniera più evidente: storicamente l’uso della lingua italiana ha identificato i membri delle classi sociali più elevate ed istruite, mentre l’uso della lingua sarda è stato identificato con i membri delle classi subalterne e ignoranti. Dagli ultimi studi sociolinguistici (Oppo, 2007) risulta che ancora oggi l’uso della lingua sarda caratterizza la classe lavoratrice; significativo anche che le donne abbiano una minore competenza linguistica in sardo, probabilmente spinte a rifiutare lo stigma della sardità al fine di potersi affermare entro una società che già le discrimina per la propria appartenenza di genere.

Razza e violenza coloniale in Sardegna – Possiamo notare come questa identità sarda subalterna è stata costruita storicamente, passando anche attraverso un altro concetto che ha caratterizzato l’imperialismo europeo – e italiano in particolare – nel resto del mondo: quello di «razza». Questo è da intendersi non solo nella sua connotazione biologica, pseudoscientifica, ma – in esteso – entro la creazione di una gerarchia all’interno del genere umano con il fine di giustificare lo sfruttamento coloniale del Sud del mondo. Il punto di partenza può essere individuato nella storiografia sarda della prima metà dell’Ottocento; storici come Giuseppe Manno, Vittorio Angius, Pietro Martini, Pasquale Tola, Giovanni Siotto Pintor inventano – contraddittoriamente – l’idea di Nazione Sarda e di italianità dei sardi, sulla base del proprio punto di vista: quello della borghesia sarda, che aveva visto nella dipendenza politica verso il Piemonte e l’inserimento nel processo unitario risorgimentale italiano come una garanzia dei propri privilegi di classe e della realizzazione delle proprie aspirazioni sociali nell’isola come sul continente. La Nazione Sarda viene esaltata e difesa innanzitutto per il suo passato; per quanto riguarda il presente, la dominazione sabauda viene celebrata come illuminata e portatrice di libertà, prosperità, sviluppo politico, civile, economico (in particolare, si vanta l’abolizione del feudalesimo, escludendo completamente il punto di vista dei sardi subalterni, vittime dell’Editto delle Chiudende). La storia della Sardegna viene ascientificamente inserita entro una sorta di finalismo, volto a ricongiungere l’isola alla sua patria naturale (l’Italia), grazie alla cui riunione la Sardegna sarebbe uscita da secoli di arretratezza.

Emblematica la vicenda delle false Carte d’Arborea, le quali furono interpretate entusiasticamente da Martini come la dimostrazione dell’italianità della civiltà giudicale. La psichiatra Nereide Rudas analizzò il caso da un punto di vista psicoanalitico, parlando di «grande romanzo familiare collettivo», volto a colmare con una genealogia immaginaria il proprio complesso dovuto all’assenza di memoria, colmando il desiderio di individuazione personale e collettiva con un riferimento ad un mitico passato fantastico, una pseudoidentità.

Nella seconda metà del XIX secolo, invece, questo complesso di inferiorità si legherà ad una vera e propria razzializzazione proposta dagli allievi della scuola antropologica di Cesare Lombroso ed Enrico Ferri. Brigit Wagner – studiosa di Cultural e Postcolonial Studies – ha analizzato il processo di definizione razziale dei sardi parlando di «complesso Niceforo». Alfredo Niceforo fu l’autore di saggi come «La delinquenza in Sardegna» (1897), in cui individuò nella degenerazione irrecuperabile della razza sarda la causa della criminalità tipica dell’isola: «razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza morale»; «l’eredità psichica è fatto ben saldo e organizzato e non sparisce (…) mantiene intatto l’atavismo di quelle popolazioni»; «nelle loro cellule nervose c’è qualche cosa d’organizzato che li spinge fatalmente al sangue, e questo qualche cosa è l’eredità morale». Perciò, le idee primitive si trasmetterebbero inevitabilmente da una generazione di sardi all’altra.

Altro autore importante è Paolo Orano, il quale scrisse «Psicologia della Sardegna» (1896); si tratta di un intellettuale significativo, nel nostro ragionamento, in quanto diventerà poi esponente del Partito Sardo d’Azione – il che mostra come negli stessi sardi e sardisti dell’epoca fossero radicati questi pregiudizi razziali – e infine del fascismo, diventando uno dei primi intellettuali antisemiti italiani, con il libro «Gli ebrei in Italia» (1937). Orano vede i sardi come un popolo dai costumi statici e barbarici, invoca l’intervento dello Stato, anche militare, per estirpare il germe della criminalità, che altrimenti – a causa dei vizi originari della razza – si diffonderebbe irrefrenabile: «delinquenti nati»; «hanno prevalso (…) quelle tendenze fisiche e morali (…) primigenie nella razza (…) facoltà e forme biologiche che si riscontrano perfettamente presso i selvaggi». La predisposizione primitiva in forza, resistenza, astutezza e velocità si tramuterebbe in brutalità, ribellione, frode e furia: «è il vero e proprio fattore di razza (a spiegare) l’originalità del brigantaggio sardo».

«Caccia Grossa» (1900) di Giulio Bechi è un libro importante per capire il razzismo antisardo dell’epoca e la violenza in Sardegna. Violenza coloniale in quanto il banditismo – come il brigantaggio nel Meridione – era considerato non come un crimine comune ma come la manifestazione dell’inferiorità razziale delle popolazioni che l’avevano generato. Come tale, sarebbe stato giustificato impiegare forme di repressione e mezzi straordinari, lesivi dei diritti civili, inammissibili altrove, in zone ritenute civilizzate; sono intere comunità ad essere colpite, non singoli criminali. Nel 1899, il governo Pelloux inviò il 67^ reggimento di fanteria nell’isola con l’obiettivo di reprimere il banditismo; tra i soldati c’è anche il tenente Bechi – già reduce dell’Eritrea – il quale narra le azioni repressive attuate: la retata contro la popolazione del Nuorese, presunta favoreggiatrice di alcuni latitanti (in un capitolo significativamente intitolato «La notte di San Bartolomeo», con un richiamo alla strage degli ugonotti), in cui furono sequestrati capi di bestiame e arrestate un migliaio di persone, di queste ne saranno processate 682 (gran parte delle quali poi assolte, diverse già in istruttoria, per insufficienza di prove); la caccia a cinque latitanti (rifugiati nei boschi di Morgogliai, Orgosolo), in cui quattro di loro saranno uccisi dal fuoco di carabinieri e fanti («La battaglia di Morgoglias»). Entrambe vengono salutate «nel nome dell’umanità e della giustizia», come scritto nella dedica dell’autore al Marchese de Cassis, il prefetto di Sassari che fu lo stratega delle operazioni.

Nel testo possiamo riscontrare tre elementi coloniali. Innanzitutto, l’alterità (si sottolinea frequentemente la diversità della Sardegna rispetto a un contesto europeo, mentre si ritiene abbia degli aspetti simili al mondo arabo):

«Ma è Italia? È Europa questa?»

«E poi ci si stupisce che qui si possa di pieno giorno massacrare impunemente un cristiano»

«La terra del delitto (…) d’onde tante volte ci giunse attraverso il mare un grido di dolore»

«un mondo tanto diverso da quello in cui viviamo»

«Mi pareva d’esser trasportato lontano lontano, in uno di quei pellegrinaggi favolosi della Mecca»

«Un terribile idioma, intricato come il saraceno»

«Occhi di musulmane»

«Non par d’essere in Europa (…) donne così brune, tutte eguali in bianco, rosso e oro (…) e il viso celato dal mucadore fino al muso, danno l’idea di tante musulmane accosciate in una moschea»

Poi, la deumanizzazione (i banditi vengono descritti con tratti animaleschi):

«Barbe caprine, chiome scarmigliate che incorniciavano fisionomie abbrutite e feroci, ebeti e sinistre, dagli occhi biechi nei quali lampeggiava il delitto»

«Mostri umani»

«Tre esseri in mastruca (…) due musi scimmieschi (…) una figura di bruto triste e sudicio, esalante un beato odor di pecorino»

«Due macachi»

«Balzi del muflone e la corsa della lepre»

Infine, il razzismo (i sardi sono descritti come una popolazione primitiva, denigrandone i costumi e le tradizioni popolari):

«Io, il figlio raffinato della civiltà (…) capivo che chi viveva là (…) doveva berlo nell’aria il germe del bandito»

«Sono superstiziosi come tutti i semplici e i primitivi; hanno gli amuleti, i brevi, i sortilegi, le magie, delle storie di angeli e di diavoli, hanno le croci all’entrata dei paesi per impedirne l’accesso agli spiriti maligni (…) per loro, insomma, la religione è uno specifico contro certi malanni, un’arma e un usbergo contro i nemici»

«Il tristo fiore della degenerazione sbocciato sulla barbarie primitiva, fecondato nel letame della miseria: lo eran tutte le veemenze della razza e delle passioni istintive»

«Par che la natura si compiaccia di spargere qui più fecondi i semi della vita. Fra gli stracci e il sudiciume la razza fiera, in cui bolle ancora tanto sangue africano, prolifica regolarmente»

«Il brigante leggendario (…) è il verme nato in un vecchio corpo putrefatto»

«accampamento zingaresco (…) un’intera tribù (…) ceffi irsuti di trogloditi»

«orribile grugnito del coro sardo, due note rauche, selvagge, gorgogliate»

«Quanti miseria e quanto abbandono! Son primitivi, che vuoi farci?»  

Nei tempi più recenti, questa mentalità colonialista si è espressa nella forma più accettabile della teoria della modernizzazione, con la Sardegna vista sempre come arretrata e bisognosa di svilupparsi grazie all’intervento dello Stato e del capitale esterno. Entro questa riformulazione della dicotomia civiltà/barbarie il bersaglio è sempre la società pastorale, il cui tessuto socioeconomico dovrebbe essere sradicato come presupposto per lo sviluppo e la fine del banditismo (espresso nel sequestro di persona) e di altre forme di criminalità ritenuta specifica (ad esempio, gli attentati, dagli anni’80). La Commissione Medici (1969) individuò nella pastorizia nomade «arcaica» la causa dei suddetti reati, aprendo la strada per un nuovo piano di rinascita (legge 268/1974) per industrializzazione delle zone interne (grazie a cui sarebbe costruito il petrolchimico di Ottana) e per un progetto di pastorizia «stanziale», con un allevamento razionale, quindi, possiamo dire, in favore dell’introduzione di una mentalità capitalistica. Tra gli anni’60 e ’70 l’ascesa dei sequestri sarà combattuta con l’incremento della presenza poliziesca «militare», il largo uso del carcere preventivo e discutibili condanne (basti pensare solo alle liberazioni più recenti di alcuni condannati, dei quali si è scoperta l’innocenza solo dopo decenni passati dietro le sbarre). Negli stessi anni, un giornalista del Corriere della Sera, Augusto Guerriero, scrisse «In Sardegna bisogna fare una vera e propria spedizione militare (…) Non si riesce a scovare i banditi? Si scovino con i gas!»; sulla Rivista dell’Arma dei Carabinieri, invece, era possibile leggere cose come queste «Si adoperino gli stessi mezzi di Graziani contro i ribelli in Cirenaica».La conflittualità creatasi tra le forze dell’ordine statale e le comunità sarde può essere forse rivelata da un dato significativo: in Sardegna, tra le condanne inflitte a minori, spicca il reato di resistenza a pubblico ufficiale, in una percentuale superiore rispetto alla media italiana (7.6% contro 4.8%, ISTAT 2004, riportato da Cosseddu, 2009). Inoltre, ricordiamo gli atti rivolti contro i militari dell’operazione Forza Paris, inviati nel Nuorese tra il 1992 e il 1997, sempre al fine di contrastare la cosiddetta Anonima Sequestri.

Episodi di razzismo antisardo, legato all’equazione sardo = bandito/potenziale sequestratore, si sono verificati anche nella penisola, ai danni dei sardi emigrati. Nel 1984, a seguito del sequestro di Anna Bulgari, il questore di Roma chiese invitò i sindaci di alcune province del Lazio a fornire l’elenco di tutti i residenti di origine sarda nei loro territori, con la richiesta di alcune notizie sul loro conto (dati anagrafici, sulle loro famiglie, anno di immigrazione); nel 1990, dopo il sequestro di Augusto De Megni, la Polizia di Urbino volle una mappa di tutti i sardi residenti nella provincia di Pesaro.

Per avere conferma della persistenza del razzismo antisardo nella Sardegna attuale, basta vedere i residui di antropologia ottocentesca nelle recenti dichiarazioni di importanti esponenti politici, magistrati, autorità di pubblica sicurezza, giornalisti:

«Usare la banda larga contro le bande che affossano le zone interne, diventa il messaggio di cultura, civiltà e modernità che la nostra terra è tempo faccia suo» (Francesco Pigliaru, 2 aprile 2016, ANSA). Il Presidente della Regione cercò di creare un collegamento tra il suo progetto di diffusione della banda larga nei comuni del Nuorese – utilizzabile per la videosorveglianza – e il contrasto al fenomeno degli attentati ai pubblici amministratori affermando implicitamente che la Sardegna sarebbe incivile, incolta, arretrata e primitiva.

«In Sardegna il fenomeno della corruzione è ridottissimo, perché fondamentalmente il popolo sardo è un popolo dalla schiena dritta, fortemente individualista» (Danilo Gagliardi, ANSA, 22 novembre 2016). Il questore di Cagliari così si espresse per spiegare la relativa resistenza della Sardegna a fenomeni corruttivi; tuttavia, la tesi dell’individualismo delle popolazioni meridionali risale all’antropologia criminale del XIX secolo, che così riteneva di spiegare la tendenza alla ribellione nel Sud Italia.

«Moventi che si radicano nella cultura degli ambienti agropastorali»

« È agevole la considerazione che nell’esecuzione di questi delitti si sia principalmente trasfuso l’istinto predatorio (tipico della mentalità barbaricina) che stava alla base dei sequestri di persona» (Roberto Saieva, procuratore generale di Cagliari, relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, riguardo l’aumento degli omicidi volontari in provincia di Nuoro e la crescita delle rapine ai portavalori)

«qui resistono i retaggi della Civiltà di pietra descritta dal filosofo Antonio Pigliaru, il teorico del Codice barbaricino»(«Difese la fidanzata dai bulli, ucciso a 19 anni a fucilate». Nicola Pinna, La Stampa, 9 maggio 2015)

«Non sale dalla profonda Barbagia il racconto di maltrattamento di piccoli alunni. Tocca Roma, Grosseto, Pisa, Bolzano» («Niente controlli sulle maestre assunte. E adesso telecamere in tutti gli asili». Corrado Zunino, La Repubblica, 2 agosto 2016)

«In Sardegna e così qui nell’Alto Comasco anziché formalizzare un esposto o una denuncia, anziché parlare con un magistrato o le forze dell’ordine, si risponde soltanto in un modo. Con la forza fisica, il sistema mafioso, l’arroganza e l’ignavia di agire di nascosto» ( «Lombardia, cascinali e auto dei sindaci incendiati nell’Alto lago», Andrea Galli, Corriere della Sera, 8 novembre 2016)

Da queste tre ultime citazioni possiamo notare come nella stampa italiana sia diffusa l’idea coloniale di «alterità» della Sardegna, per cui in questa sarebbero normali atti particolarmente gravi che diventano invece incomprensibili, strani, quando accadono nel civile Nord della penisola italica.

Rimozione della memoria coloniale in Sardegna e in Italia – La persistenza di questi pregiudizi testimonia anche l’assenza di una memoria storica, di una consapevolezza tanto del colonialismo subito dai sardi quanto della storia coloniale interna ed esterna dell’Italia.

La Divisione Sassari in Iugoslavia è un perfetto esempio di rimozione della memoria sarda entro la rimozione più generale della memoria storica italiana; utile per comprendere come l’Esercito sia stato utilizzato come veicolo di un’identità nazionale italiana di comodo e di come la Brigata sia stata utilizzata come simbolo di italianità dei sardi. Il discorso sciovinista italiano porta a mostrare il soldato italiano nella Seconda Guerra Mondiale come una vittima del regime fascista, inviato in Africa e in Russia, privo di equipaggiamento adeguato e a morire a migliaia di chilometri lontano da casa; di fronte a questa narrazione autoassolutoria, il ricordo dei soldati italiani nei Balcani diventa chiaramente imbarazzante, a causa dei crimini compiuti nell’area, che hanno mostrato nitidamente il volto del militare italiano come occupante, razzista, assassino di innocenti. Allo stesso modo, è ammessa una sola visione propagandistica dei reggimenti etnici sardi nelle Forze Armate italiane: essi sono i creatori dell’indissolubile legame di sangue tra la Sardegna e l’Italia, oltre ad aver permesso – secondo la contraddizione già richiamata – una presa di coscienza dei sardi stessi come popolo, portando alla nascita del movimento sardista autonomista dal Movimento dei Combattenti. Cancellati due pagine ignobili della storia dei cosiddetti Dimonios: il loro impiego per reprimere uno sciopero operaio a Torino, nell’immediato primo dopoguerra; il ruolo della Divisione Sassari in Croazia, nella quale si macchiò di numerosi crimini, tra cui la distruzione di villaggi e l’uccisione di civili inermi (vedi articolo Vogliamo la Scuola Sarda non Militari italiani, Scida 2013).

Ad essere nascosta, dunque, è la realtà di sardi utilizzati come carne da cannone o come ascari e criminali al servizio di interessi imperialisti, oltre che contrari a quelli della Sardegna stessa. Analoga strumentalizzazione avviene oggi, con la Brigata Sassari recentemente impiegata in Iraq e Afghanistan entro una fantomatica missione di pace, che occulta il ruolo compiuto da italiani e sardi in azioni belliche a servizio dell’imperialismo atlantista (compreso quello del capitale privato e statale italiano, basti pensare all’ENI). Inoltre, pare che la Brigata Sassari si sia fatta ben pochi scrupoli umanitari contribuendo all’arresto di capi e miliziani talebani (o presunti tali) inviati poi – dalla polizia locale – nel carcere di Herat (la cui costruzione è stata finanziata sempre dagli italiani, i quali avrebbero avuto anche il compito di supervisionarlo durante il proprio mandato – «Torture nel carcere italiano», Gianluca De Feo, L’Espresso, 10 ottobre 2011) di cui un rapporto delle Nazioni Unite (Unama, «Treatment of Conflict­-Related Detainees in Afghan Custody», 2011) ha rivelato le torture. Evidentemente, né ai militari italiani né alla Repubblica Italiana sembra inquietare la possibile complicità in questo crimine (sebbene nella civile Italia non esista ancora un reato specifico contro la tortura). Persino l’occupazione militare della nostra isola – grazie alla quale la Sardegna deve caricarsi delle esigenze fondamentali della Guerra italiana – viene spesso difesa in nome di un presunto legame tra il nostro popolo e le forze armate.

Conclusioni – Tra le cause della rimozione della memoria colonialista in Italia è stata la fine dell’Impero per mezzo della sconfitta contro gli Alleati e non a seguito di uno scontro con un movimento anticolonialista o un processo di decolonizzazione, che avrebbe obbligato gli italiani e lo Stato a fare i conti con la propria colonialità. In questo contesto, entro una Repubblica mai liberatasi del suo carattere coloniale interno e del suo discorso nazionalista reazionario, parafrasando Marx sulla questione irlandese, penso che un movimento di emancipazione nazionale sardo possa avere un ruolo determinante nel porre questo Stato di fronte al proprio autoritarismo e al proprio imperialismo passato e presente, contribuendo a creare le condizioni per delle future relazioni tra una Repubblica di Sardegna e una Repubblica Italiana realmente democratica, in quanto spogliata del suo carattere coloniale.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI

Massimo L. Salvadori, «Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci», Einaudi 1976.

Angelo Del Boca, «Italiani, brava gente?», Neri Pozza 2008.

Silvana Patriarca, «Italianità: la costruzione del carattere nazionale», Laterza 2010

Nelson Moe, «The View from Vesuvius: Italian Culture and the Southern Question», University of California Press, 2002.

Carmine Conelli, «Razza, colonialità e Nazione. Il progetto coloniale italiano tra Mezzogiorno e Africa» in «Quel che resta dell’Impero», a cura di Valeria Deplano e Alessandro Pes, Mimesis, 2014.

Aldo Accardo, «La nascita del mito della nazione sarda. Storiografia e politica nella Sardegna del primo Ottocento», Amed Edizioni 1996.

Nereide Rudas, «L’isola dei coralli. Itinerari dell’identità», Carocci 2004.

Birgit Wagner, «La questione sarda. La sfida dell’alterità» in «Il postcoloniale in Italia», Aut Aut n^349/2011.

Giulio Bechi, «Caccia Grossa», con prefazione di Manlio Brigaglia, Ilisso 1997.

Girolamo Sotgiu, «Storia della Sardegna dopo l’Unità», Laterza 1986.

Aldo Accardo, «Politica, economia e cultura nella Sardegna autonomistica (1948-1998)»; Pietro Maurandi, «L’avventura economica di un cinquantennio» in «L’isola della Rinascita. Cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna», a cura di Aldo Accardo, Laterza 1998.

Michelangelo Pira, «La rivolta dell’oggetto: antropologia della Sardegna», Università di Cagliari, Giuffrè Editore 1978.

«Cagliari, scoppia la polemica per i sardi schedati a Roma», Pier Giorgio Pinna, la Repubblica, 9 ottobre 1984.

«Il PCI: ‘schedati in massa i sardi residenti in Umbria’» , Pier Giorgio Pinna, La Repubblica, 21 ottobre 1990.

«Quando scrivevano: ‘buttiamo il napalm sui sardi’», Francesca Mulas, Sardiniapost.it, 30 agosto 2015.

Mariana Cosseddu, «Omicidio e suicidio nei piccoli centri della Sardegna. Indagine su anomia e solidarietà meccanica attraverso le statistiche giudiziarie», tesi di dottorato, Università di Sassari, 2009.

Eric Gobetti, «L’occupazione allegra: gli italiani in Iugoslavia (1941-43)», Carocci 2007

Paolo Vacca, Francesco Fatutta, «La guerra dimenticata della Brigata Sassari», Edes 2001.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.